Dopo decenni di incomprensioni e di silenzi, i tempi sembrano maturi per una “riconsiderazione” del corporativismo ? A dirlo è il recente libro-intervista Passato, presente e futuro della rappresentanza di interessi di Maurizio Sacconi e Matteo Colombo (edito da Adapt University Press e scaricabile on-line: https://www.bollettinoadapt.it/passato-presente-e-futuro-della-rappresentanza-di-interessi/).
La riflessione, a due voci, degli autori parte dalla parola “rappresentanza”, parola dai molti significati, intorno alla quale – per decenni – si sono infiammate le aspettative di intere generazioni laddove oggi pare ammantata dai fumi della diffidenza se non dell’oblio.
Per spazzare il campo dalle incomprensioni, spesso di natura ideologica, Sacconi e Colombo vanno – in premessa – all’origine dei termini in campo, a cominciare dal “corporativismo”, rispetto al quale, nella vulgata corrente, è associata l’idea della “tutela esclusiva degli interessi di un gruppo ristretto, spesso a danno della collettività o comunque senza un rimando a quest’ultima”.
In realtà – ci dicono gli autori – l’accezione “storica” e semanticamente corretta del corporativismo porta all’origine etimologica del termine “corpo”, che ci dice, innanzitutto, di un’organicità, di un sistema che collabora, di un insieme che è maggiore della somma delle parti che lo compongono.
“Il corpo a cui si fa riferimento – specificano i due autori – non è quindi il corpo politico del Leviatano di hobbesiana memoria, ma un corpo plurale, un moltiplicarsi di corpi nati dal desiderio (dal basso) di associarsi a difesa e tutela dei propri interessi e, in particolare, di interessi professionali e legati al mondo del lavoro”.
Emerge – in quest’ottica – l’idea di un corporativismo quale istituzione spontanea e prossima; “politica” in quanto espressione di un sistema di gestione decentrato; non statalista nella misura in cui è capace di rappresentare autonomamente le forme prossime di rappresentanza. Ben diverso – in definitiva – rispetto all’esperienza del corporativismo fascista, sui cui limiti la dottrina partecipativa post bellica aveva peraltro già sviluppato le sue analisi critiche. “L’obbiezione di fondo al sistema corporativo fascista su cui son d’accordo quasi tutti – scriveva Diano Brocchi (Democrazia corporativa, 1963), esemplare figura di corporativista non pentito – è l’inadattabilità teorica fra il principio corporativo e quello autoritario, la contraddizione fra i principi che ispiravano i fondamentali istituti corporativi, a cominciare dalle associazioni sindacali, e quelli che ispiravano invece l’organizzazione politica che, a un determinato momento, assunse la direzione e il controllo di tutto l’ordinamento corporativo”.
Sacconi guarda ai “corpi intermedi” quali espressione di una “rappresentanza forte, plurale, partecipata, libera, diffusa”, in grado di evitare un ritorno allo Stato espressione di una Società atomistica, composta da individui singoli e irrelati. Si tratta di una “scommessa” senza “a priori”, impegnata a guardare alla complessità sociale, fatta di imprese e di settori produttivi, di territori diversi e di diverse esigenze e caratteristiche. La sfida della nuova rappresentanza deve essere la sua adattabilità ed autorigenerazione continua, a fronte di un potere istituzionale che – denuncia Sacconi – appare poco attento all’ascolto e di corpi sociali che hanno perso la capacità di farsi valere nel dialogo e nel dibattito pubblico.
In questo contesto l’approccio di Sacconi e Colombo è “problematico” nella misura in cui rifiutano una visione burocratica e formale al tema della rappresentanza, nel nome di una reale autonomia associativa dei diversi soggetti sociali e di una visione “partecipativa” condivisa dal basso.
Non va peraltro dimenticato che Sacconi, nel corso del suo mandato ministeriale, si spese per la costruzione di un Codice della Partecipazione, affidato alle parti sociali, perché potessero autonomamente proporre al legislatore soluzioni normative utili a diffondere meccanismi partecipativi dei lavoratori.
Gli auspici della vigilia – come puntualizza lo stesso Sacconi – si scontrarono con una realtà arretrata, che allora ( eravamo nel 2009) come oggi considera pericolose le ipotesi partecipative, non avendo ancora completamente abbandonato il conflitto come orizzonte nel quale impostare la propria attività rivendicativa.
Su questo piano molto c’è da fare al fine di fare crescere una presa di coscienza “partecipativa” da parte delle forze sociali e soprattutto dei lavoratori.
Non a caso nelle conclusioni di Passato, presente e futuro della rappresentanza di interessi (significativamente intitolate “Perché il futuro della rappresentanza ha un cuore antico”) gli autori parlano di salvaguardare-rivalutare l’autenticità associativa dei corpi intermedi, a tutela della propria indipendenza e libertà rispetto al potere pubblico e nel segno di una libertà sindacale in grado di ridisegnare autonomamente i perimetri della rappresentanza anche della nuova geografia del lavoro e delle trasformazioni socio-economiche. L’invito alle confederazioni sindacali è di “promuovere percorsi, ovviamente graduali e faticosi, di riorganizzazione ‘politica’ tanto a livello centrale quanto nella relazione con i territori”, nel segno di una visione di società aperta ed attiva.
“I nuovi modelli possono avere – scrivono Sacconi e Colombo – il cuore antico delle comunità locali di mestiere. Plurali, semplici, immediate, partecipative, formative, sussidiarie. E soprattutto, libere”. Una rappresentanza – in definitiva – che sappia guardare lontano, misurandosi sui nuovi scenari futuribili, coniugando dimensione economica, sociale e politica.
In fondo – ci piace sottolinearlo – quello che fu l’ordine politico di stampo corporativo, spazzato via dalla Rivoluzione borghese dell’89. Da lì, anche da lì, bisogna ripartire per delineare un’alternativa ai vecchi modelli neostatalisti e liberisti, immaginandosi – come auspicato da Sacconi e Colombo – un modello di rappresentanza (degli interessi, delle competenze, organicamente partecipativo) sussidiario, plurale ed autonomo.
Un mondo strafinito.
Nella Rivoluzione Industriale (I e II) non c’è spazio per il corporativismo.
Molto semplice. Se i sindacati son più forti dello Stato (Argentina peronista) hai sempre la corruzione, la cleptocrazia, l’incompetenza delle mafie sindacali al potere…
Un’azienda o è privata o è pubblica. E privata funziona meglio, molto meglio. Non esistono terze vie.