Quando ero un imberbe studentello, c’era una parola d’ordine su cui la sinistra costruiva le proprie fortune nel mondo giovanile: l’opposizione al nozionismo. Che nella scuola di un tempo ci fosse un eccesso in questa direzione è fuor di dubbio. Le lamentele di chi riteneva non indispensabile per affrontare l’esame di maturità conoscere il nome delle amanti del Foscolo non erano del tutto infondate. E mi domando ancora oggi quanto sia stato utile per la mia formazione mandare a mente i nomi pittoreschi di oscuri letterati dei primordi della nostra letteratura come Meo Abbracciavacca, senza avere mai letto un rigo delle loro opere.
È onesto aggiungere però due considerazioni. La prima è che, anche se all’apparenza inutile, lo sforzo mnemonico costituiva un esercizio utile per rafforzare una funzione necessaria anche nei successivi studi universitari, specie in facoltà come giurisprudenza o medicina, in cui conoscere perfettamente il numero di un articolo del codice o il nome di un osso è fondamentale. Memoria, nisi eam exerceas, minuitur, sentenziava Cicerone; e Dante a sua volta osservava che “non fa scienza sanza lo ritener avere inteso”. Tali considerazioni naturalmente erano più valide negli anni Sessanta di oggi, nell’era in cui ciascun possessore di cellulare si porta con sé tutto lo scibile umano, ma fino a un certo punto: non possiamo correre il rischio di divenire schiavi di una memoria elettronica, e soprattutto degli algoritmi che la gestiscono.
Purtroppo la critica al nozionismo degenerò presto in lotta alle nozioni, anche quelle indispensabili per stabilire i rapporti logici all’interno di una disciplina. Un caso limite ha riguardato la storia, in cui la conoscenza delle date dei principali avvenimenti è indispensabile per la comprensione dei rapporti di causa-effetto, secondo il celebre assioma di Vico secondo cui “la cronologia e la geografia sono gli occhi della storia”. Col risultato che, come constatò con sgomento un uomo di sinistra come il presidente Mitterrand poco prima del Bicentenario dell’89, molti studenti d’oltralpe imbevuti di nouvelle histoire non ricordavano la data della rivoluzione francese.
A giudicare però dalle scelte ministeriali nell’organizzazione dei concorsi e degli esami di abilitazione per la scuola, il nozionismo è tornato in auge e purtroppo, come spesso avviene, nei suoi aspetti deteriori. Come prova scritta propedeutica agli orali è stato scelto un questionario con domande a risposta chiusa: un rischiatutto in tutti i sensi, perché chi non la supera, magari dopo anni o decenni di insegnamento come precario, rischia di essere costretto a rivedere totalmente le sue scelte di vita.
Sia ben chiaro: una seria selezione degli insegnanti è doverosa, vista l’importanza fondamentale della funzione docente, e il superamento della logica delle immissioni ope legis è una scelta ampiamente condivisa. Il fenomeno del precariato è una piaga che si strascina ormai da quasi mezzo secolo, da quando il combinato disposto di baby boom e scolarizzazione di massa portò al ricorso massiccio a incaricati annuali per l’impossibilità di esperire in tempi brevi i concorsi per una vastissima varietà di cattedre. Occorre aggiungere che ogni esame comporta una inevitabile componente di aleatorietà. Far dipendere però da un quiz il futuro professionale di un docente, spesso più vicino ai quarant’anni che ai venti, costituisce però un’aberrazione, perché le risposte date a un questionario possono attestare il possesso di una certa quantità di nozioni, ma non la loro capacità di metterle in collegamento e soprattutto di esprimerle correttamente. L’unica prova veramente indicativa in questo senso, almeno per le discipline umanistiche, è il tema, da cui la commissione esaminatrice può dedurre non solo la padronanza della materia, ma la capacità d’interpretare correttamente quanto richiesto dalla traccia, di sviluppare la materia in maniera organica, nonché di esprimersi in un italiano chiaro, pulito e sintatticamente e magari anche ortograficamente corretto.
La rinuncia al tema, il cui svolgimento era previsto una volta persino nei concorsi per bidello, è legata a fattori sia di indole ideologica (la polemica contro un esercizio ritenuto retorico, cara a certa pedagogia progressista) sia di natura pratica. Correggere un questionario, cui il candidato magari ha dovuto rispondere al computer, richiede pochi minuti. La correzione di un elaborato scritto comporta un impegno ben maggiore. Il problema potrebbe essere superato se ai commissari delle varie classi di concorso fosse concesso l’esonero dal servizio, ma ormai da diversi anni questo non avviene, col risultato che gli esaminatori, pagati oltre tutto con irrisori compensi “a cottimo”, erano costretti a correggere gli elaborati ad avanza tempo, fra le lezioni del mattino e le riunioni del pomeriggio, con inevitabili rallentamenti, perché la correzione, pena nullità, dev’essere collegiale. Di qui la difficoltà a reperire commissari e presidenti, per un incarico un tempo considerato prestigioso per cui si candidavano insigni cattedratici. Nonostante l’enfasi retorica posta sull’esigenza di riqualificare la funzione docente rivalutando il merito, si è privilegiata una logica meramente ragionieristica, per risparmiare sui supplenti che avrebbero dovuto sostituire i presidi e i professori impegnati come esaminatori.
I risultati deleteri di questo nozionismo di ritorno sono già cominciati ad affiorare. Le soluzioni di alcuni quiz sono risultate sbagliate e un professore già vincitore di concorso per la scuola e persino docente universitario a contratto si è divertito a presentarsi a un esame di abilitazione risultando bocciato perché non ricordava il titolo di una delle opere giovanili di Giovanni Verga, “Eva”, che a suo tempo riportò un grande successo, mentre oggi la leggono solo gli specialisti. Io avrei saputo rispondere, ma solo perché, in vista della maturità, avevo imparato a pappagallo la terna delle opere giovanili di Verga, Eva, Tigre Reale, Eros, e ancora oggi la ricordo, ma con lo stesso automatismo per cui saprei declamare la terna iniziale della formazione della Nazionale di calcio del tempo: “Albertosi, Burnich, Facchetti…”
Molto più indicativo della maturità di un candidato sarebbe stato lo svolgimento di un tema sui motivi per cui il narratore catanese venne apprezzato in vita soprattutto per romanzetti sentimentali oggi dimenticati mentre la scoperta del suo capolavoro avvenne tardivamente: i Malavoglia, come ammise lo stesso autore in una lettera a Capuana, furono “un fiasco”. O magari sul paradosso per cui un conservatore come Verga, che alla fine della sua vita simpatizzò per il movimento fascista, divenne un’icona del progressismo neorealista. Sapere le cose è importante, ma solo saperle interpretare e collocare nel loro giusto contesto è indice di maturità, per un insegnante come per un qualsiasi professionista. Ma sono davvero professori maturi, capaci di un pensiero critico, quelli che s’intende selezionare per la nostra scuola? Il modo con cui è stato gestito l’ultimo concorso a cattedre conferma, purtroppo, i miei dubbi in proposito.