Tornare alla terra, come diceva il filosofo, non è un capriccio ma una necessità. Cimentarsi a farlo ricorrendo alla poesia è, già di per sé, un atto di ribellione e di coraggio. E di rispetto, se non altro, nei confronti della stessa poesia, ridotta come è a passatempo per zitellone di paese.
Già nel titolo della prima raccolta di poesie di Giuseppe Corrado “Come un ulivo, tra le macerie!” (Robin Edizioni, 80 pagg., 10 euro) c’è la chiave di lettura, il fil rouge che tiene insieme i 53 componimenti in versi dell’opera. Rimbomba l’eco evoliana dell’uomo che ha il dovere di rimanere in piedi tra le rovine mentre intorno tutto pare sgretolarsi. Risuona l’invocazione al nume dell’ulivo millenario, solido simbolo di pace. Non quella svilita dal chiasso degli engagés con la fregola del sozial, ma come epifania della tradizione nel reale, unica guida sicura verso traguardo, d’ineffabile gioia, nel compimento dell’esistenza e del proprio destino.
Corrado cerca di farlo poetando con un ritmo pop, urbano e ambizioso. S’ispira a Rimbaud e le sue sonorità sono rock. I suoi versi hanno l’ambizione di far sbocciare fiori dal cemento di una piccola città di periferia mortificata e oppressa. Come mille altre. A proposito di rock: cita Pound, o d’Annunzio, per esempio. Queste sì che sono grandi stelle, altro che le meteore commerciali che vanno di moda prima di finire (appunto) in macerie.
La poesia di Corrado evoca immagini contemporanee e non nasconde nulla della sua visione del mondo e della vita che tutto è fuorché “liquida”. Non è solo un “mostrarsi nudo” al pubblico. Cosa che, francamente, sarebbe una banalità da sciocchi e superficiali. Tenta di dar voce e versi a un’anima, che è sua ma non è soltanto sua, che appunto nel simbolo dell’ulivo trova la sua immagine ideale. Prova a dare un senso, in versi, a un’esistenza da raccordare. Diventa te stesso, diceva il filosofo.