Non c’è PNRR che tenga per affrontare il degrado esistenziale di ampi settori del mondo giovanile. Il fenomeno è talmente parcellizzato da sbiadirsi nelle cronache locali, ma ciò che emerge è una vera e propria emergenza dai tratti complessi. Qualche episodio tra i tanti, registrati un po’ in tutta Italia: adolescenti che minacciano e derubano loro coetanei; un’ ambulanza intervenuta in soccorso di una quindicenne in coma etilico bersagliata da bottiglie e da altri oggetti, scagliati dagli amici della ragazza; una baby gang che tenta di fare fuoco ad un anziano con problemi psichici; scontro a distanza tra i ragazzini stranieri e giovani abitanti d’origine italiana; tentativi di violenza nei confronti di una ragazzina da parte di un “branco” di adolescenti; furti ad opera di bande giovanili.
Nella maggioranza dei casi – secondo quanto denunciano le forze di polizia – si tratta di fenomeni incontrollabili, con difformi capacità aggregative e un’appartenenza sociale “stratificata”, che va dalle fasce economicamente più svantaggiate a minori appartenenti al ceto medio e medio-alto.
Ad accomunare le diverse realtà è però l’idea del “fare branco” quale fattore deresponsabilizzante, nella misura in cui si agisce tutti insieme e non in prima persona, scaricando sul gruppo le rispettive azioni. A questo si aggiunga l’effetto “deviante” delle sostanze stupefacenti o dell’alcool in grado di “falsare” la realtà, di esaltare le pulsioni individuali e collettive, annebbiando i freni inibitori. E poi c’è la “modernità” della comunicazione, con la messa in rete delle azioni compiute e l’esaltazione dell’impresa, autentico collante identitario per i diversi gruppi.
Di fronte a questi fenomeni, in crescita esponenziale, prevenire è necessario. Anche reprimere. Ma ancora di più è urgente andare alle radici del problema, che nasce da quello che è stato definito un tipo complesso di “analfabetismo culturale”, fatto di diritti e di doveri non rispettati, di mancanza di responsabilità e di autocontrollo, soprattutto di esempi diretti e positivi non avuti. A cominciare dalla famiglia e dall’indebolirsi del suo ruolo, depotenziato nelle sue ragioni di fondo e nei suoi stessi componenti, sotto i colpi di un relativismo diffuso e dalla conseguente perdita delle sue ragioni fondanti. Da questo punto di vista l’evocato ”analfabetismo culturale” non riguarda solo i minori.
In una società senza madri e senza padri, dove i rispettivi ruoli si perdono e si sbiadiscono, a pagarne le prime conseguenze sono i figli, privi di riferimenti certi, di indirizzi, di “valori protettivi”. Perciò il rischio è il “liberi tutti”, con le conseguenze che vediamo nelle strade e nella povertà di modelli educativi-familiari a cui le istituzioni possono rispondere solo parzialmente.
Quando, in questo ambito, si parla di politiche di inclusione sociale, attraverso la scuola e l’associazionismo, si percepisce infatti solo una parte del problema. Al fondo c’è un relativismo etico sulle cui conseguenze in pochi sembrano essere coscienti. Soprattutto il cittadino non è allertato. Non ci sono campagne informative che lo mettano sull’avviso. Al contrario, egli è quotidianamente sottoposto ad una costante opera di indottrinamento inconsapevole, in grado di rendere dolce il processo di depotenziamento collettivo, di resa, di assuefazione. E tutto questo senza che le conseguenze concrete di tale deriva siano ben chiare. Senza che i costi sociali e personali di certe scelte siano chiaramente indicati.
Poi certamente ci sono i “contesti urbani”, laddove esistono aree del Paese, in cui è il degrado a dettare legge, un degrado sociale, economico, perfino architettonico, del quale a pagarne le conseguenze sono soprattutto i giovani ed i giovanissimi, abbandonati a se stessi, spesso senza saldi riferimenti familiari, senza occasioni di socialità culturali e sportive. E dunque in balia di “aggregazioni” malsane quali sono le baby gang e di una “cultura diffusa” che premia i “trasgressivi”, spettacolarizza l’esistenza, azzera il limite, sopraffà i soggetti fragili.
Al fondo c’è una domanda inespressa di ricostruzione sociale con cui, prima o poi, bisognerà confrontarsi. Una ricostruzione che passa attraverso il recupero del valore della famiglia, il senso di un’identità sociale condivisa, il miglioramento della vivibilità urbana e quello che Konrad Lorenz, già cinquant’anni fa (in “Gli otto peccati capitali della nostra civiltà”) individuava come “l’accumularsi della tradizione” quale base di ogni sviluppo culturale e della formazione di valori insostituibili e degni di rispetto. Da qui, anche da qui, occorre partire per rispondere al “disagio giovanile”, cercando di recuperare il senso di una cultura che altrimenti – per dirla sempre con Lorenz – “può estinguersi come la fiamma di una candela”. Con quali risultati è già oggi bene evidente.
Scusate, ma che c’è da sorprendersi? Da vent’anni almeno nelle scuole medie è pieno di ragazzini strafottenti e maleducati che stanno lì “per pagare lo stipendio al professore, che altrimenti non saprebbe che fare”. I loro genitori li spalleggiano e giustificano a ogni pie’ sospinto, magari per far vedere che stanno dalla loro parte avendoli delusi in seguito a una separazione o a un divorzio. Ma questi stessi genitori sono gli stessi che negli anni Ottanta e Novanta, da ragazzi, pensavano solo a “divertirsi”: chi era bambino e ragazzo a quell’epoca veniva criticato, sia dai coetanei sia dagli adulti (insegnanti compresi), se era “troppo serio”, se “stai sempre a studiare”, se “non stai con gli altri a divertirti”, se non sapeva difendersi a cazzotti e parolacce. I risultati sono questi. Chi li aveva previsti veniva sbeffeggiato come “co*****e” e “sfi***o”.
Non a caso anche i politicanti attuali, della generazione nata negli anni Settanta, sono per lo più mediocrità e pasticcioni, per non dire altro.
Sorvolo poi su quei giornalistoni di pseudodestra che, davanti allo spettacolo del popolo ucraino che combatte disperatamente anche in condizioni di inferiorità, sanno solo sentenziare: “Ma che state a fare, lasciate perdere”. Chi è più forte ha sempre ragione, no? Continuiamo così, dai.