Il problema della sovranità è stato sempre al centro delle riflessioni degli attori politici e culturali italiani che almeno idealmente potevano far riferimento a quella grande famiglia che è la “destra” italiana. Il sovrano – che per dirla con Carl (il giurista che si scrive con la C e non con la K) è chi decide sullo stato d’eccezione – dalle riflessioni cinquecentesche in poi è stato messo a capo della penisola, e delle isole senza che nessuno, almeno idealmente, potesse limitarne il potere dal di fuori dei confini nazionali. Così via sino a Oriani, ai fermenti del nazionalismo durante la Grande guerra, all’Italia fascista e alla disfatta nazionale, stop. Qualcosa poi è cambiato. Il sovrano non è più a valle, forse a monte, forse oltre oceano, lontano e anche invisibile, condiziona e detta i tempi, decide per far decidere.
Tutti se ne sono accorti ma nessuno è corso ai ripari. Difficile è scrollarsi di dosso una lunga tradizione politica e culturale che ha sempre pensato di risolvere i mali italiani ricorrendo all’idea della sovranità nazionale, ma la domanda che forse dovremmo porci è: c’è ancora spazio per una sovranità nazionale? Vedendo regionalismi, localismi da una parte, organismi internazionali dall’altra il “no” è rimbombante. Un errore al quale abbiamo assistito, che è diventato ancora più grave in seguito alla nascita di quello stato di ragionieri che è la Ue, è quello di esser rimasti fermi all’idea che le sorti nazionali si potessero risolvere agendo esclusivamente all’interno dei confini nazionali e che la sovranità fosse protetta e coccolata dalla carta costituzionale.
Nel mentre si giocavano in Europa ben altre battaglie, non solo italiana ma anche continentale, senza che il blocco conservatore italiano ne fosse troppo interessato, vagheggiando in patria la difesa dell’interesse nazionale ma oltralpe nascondendosi dietro ad un tiepido europeismo. Arriva la crisi e senza fondi, tra norme fiscali e anche emeriti sconosciuti si scoprono sovranisti. Le battaglie, quelle vere, si combattono sempre al fronte ma forse faceva troppo freddo in Europa e il fronte purtroppo non era Roma ma Bruxelles, Strasburgo, Francoforte, summit, cancellerie… A parte qualche avventuriero nessuno è partito.
Saranno stati i guai con l’inglese o l’affetto per il bel sole che non hanno permesso agli italiani di svolgere, nei luoghi dove realmente mutavano gli assetti della sovranità europea, un ruolo decisivo e soprattutto consapevole del tempo che in realtà si stava vivendo. Le illusioni della classe politica italiana di poter risolvere l’ingovernabilità dell’economia, della finanza, della società riattizzando un certo sentimento nazionale è al giorno d’oggi un mero espediente elettorale, utile sì ad accendere i cuori di alcuni ventenni ma nella pratica inattuabile perché la nazione è morta.
Le decisioni si prendono altrove e noi non siamo altrove, i grandi giochi mondiali non vengono più combattuti da piccoli stati ma da grandi entità territoriali che includono anche multinazionali molto più forti ed organizzate delle burocrazie statali. La vera sfida del presente non è quella di raccogliere i cocci di un nazionalismo infranto, indietro ora non si torna, ma quella di premere in Europa per una sovranità meno torbida, pulita ma soprattutto riconoscibile, capace di sprigionare un potere che riesca a prendere sovranamente delle scelte rappresentative.
La destra, o le destre italiane dovranno prima o poi comprenderlo: ogni assenza, ogni silenzio costa caro, il prezzo da pagare sono i volti vuoti di certe rappresentanze politiche, l’irrilevanza corale sullo scacchiere internazionale, certi shock economici, delocalizzazioni di massa… Le battaglie per la sovranità, quelle di ultima istanza, devono essere combattute dove si combatte non dove si ordinano le messe per i morti.