Non ho molto da aggiungere alle commemorazioni che hanno accompagnato il decennale del naufragio della nave da crociera Costa Concordia, occorso il 13 febbraio di dieci anni fa dinanzi all’isola del Giglio, per una maldestra manovra del suo comandante, e reso ancora più grave dalla scelta di costui di abbandonare la nave, invece di rimanere a bordo, come previsto dal codice d’onore della marineria. Schettino sta scontando in carcere le sue colpe, acclarate da un lungo iter giudiziario, a differenza di altri ufficiali e funzionari della compagnia di navigazione, in certi casi ancora in servizio o addirittura passati di grado. Pare che sia un detenuto modello e che usufruirà presto dei generosi sconti di pena di cui la nostra giustizia è prodiga. Non me ne meraviglierei, in un bel Paese che lascia in libertà persino i parricidi, lasciando loro in certi casi la facoltà di ereditare i beni di famiglia.
So che è sin troppo facile impartire lezioni di coraggio a terzi, senza essersi domandati prima se, nelle stesse circostanze, saremmo stati capaci di subordinare l’istinto di sopravvivenza al senso del dovere. Tutti siamo bravi a ordinare la difesa a oltranza di una fortezza assediata quando si ha “il gorgonzola nel piatto”, come diceva un vecchio ufficiale amico di Giovanni Ansaldo, ma resta il fatto che, per “abbandoni di posto” senz’altro meno gravi, sono stati fucilati durante la grande guerra tanti soldatini di leva, per la dura necessità di contenere la rotta di Caporetto.
L’ufficiale Umberto Nobile lasciò altri militari per terra
Mi limito a osservare che la giustificazione addotta da Schettino per la sua scelta di abbandonare la nave – poter guidare da terra le operazioni di salvataggio – ricorda quella di un altro ufficiale, della nascente aeronautica militare, Umberto Nobile, che, quando dopo il disastro del dirigibile Italia fu raggiunto dai soccorritori, accettò di salire sul loro idrovolante, su cui i posti erano contati, lasciando gli altri a terra. La situazione era certo diversa, così come diversa è la statura di Nobile rispetto a quella di Schettino, ed effettivamente sulla scelta del generale e ingegnere italiano, che lo fece cadere in disgrazia presso il regime, pesarono motivazioni non prive di una loro logica. Eppure – come faceva insinuare nella finzione scenica a Roald Amundsen, interpretato Sean Connery, il regista di quella splendida coproduzione italo-sovietica che è “La tenda rossa”, – non è da escludere che nel bilanciamento dei pro e dei contro abbia svolto un ruolo determinante per l’ufficiale il desiderio di un “bel bagno caldo”.
Permettetemi però di ricordare il disastro della Costa Concordia con due esempi di valore civile e militare che credo andrebbero riproposti alle nuove generazioni, e anche alle meno giovani. Uno riguarda l’affondamento del Titanic. Nonostante molte speculazioni che sono state fatte sull’evento, da recenti ricerche è emerso come i passeggeri inglesi abbiano seguito rigorosamente il codice del gentleman, cedendo il posto sulle scialuppe alle donne e ai bambini (lo stesso non avvenne, spiace dirlo, per molti nuovi ricchi statunitensi, cresciuti evidentemente con un’etica meno severa di quella che si assimilava nei college britannici).
Da Schettino al comandante Borsini
L’altro riguarda noi italiani ed è la storia di due medaglie d’oro: un ufficiale di Marina e il suo attendente. Il comandante si chiamava Costantino Borsini, era nato a Milano nel 1926 ed era uscito guardiamarina dall’Accademia di Livorno. Dopo una brillante carriera aveva conseguito la promozione a capitano di corvetta e all’inizio del secondo conflitto mondiale aveva assunto il comando del cacciatorpediniere Francesco Nullo. Nell’ottobre del 1940 ingaggiò nel Mar Rosso un impari scontro contro cacciatorpediniere e incrociatori nemici, che mise fuori combattimento la sua imbarcazione. Prima che la nave affondasse mise in salvo l’equipaggio, ma poi volle rimanere a morire sul “Nullo”, memore dell’imperativo morale secondo cui “il capitano non abbandona mai la nave”.
Obbedendo all’ordine di evacuare l’imbarcazione si era messo in salvo anche il suo attendente, Vincenzo Caravolo, un marinaio di leva che non aveva ancora compiuto ventun anni. Sarebbe potuto sopravvivere, ma, quando vide che il “suo” ufficiale aveva scelto di morire sulla nave che affondava, ritornò a bordo e perì con lui.
Si sono fatte spesso molte ironie sull’istituto dell’attendente, che, divenuto ormai anacronistico in una società in cui il personale di servizio stava diventando un lusso per pochi, almeno da Roma in su, fu soppresso alla fine degli anni Sessanta. Ma il sacrificio del marinaio Caravolo ci fa capire come certi rapporti di rispetto, di devozione, se vogliamo di autentico amore fra persone di ceto sociale e cultura molto lontani ancora sopravvivessero ottant’anni fa e potessero condurre a comportamenti prossimi al sublime pur nella loro apparente assurdità. E ci fa sentire ancora più lontana quell’Italia, che non era necessariamente l’Italia fascista (la Marina era delle tre Armi quella più sabauda e insofferente della retorica littoria), dall’Italia di oggi, che ha fatto dell’obiezione di coscienza una religione. La famiglia, la scuola, il servizio militare di allora producevano dei Caravolo, e dei Borsini. L’Italia uscita dal ’68 ci ha regalato gli Schettino.
p.s. per sdrammatizzare, permettetemi un aneddoto a proposito di Nobile. Messo da parte dal regime per il suo comportamento ritenuto poco consono all’etica militare e accusato di “imperizia” nell’organizzazione della spedizione, il generale si avvicinò alla sinistra e nel 1946 fu eletto alla Costituente come deputato indipendente nelle liste del Pci. Deputato alla Costituente era anche Guglielmo Giannini, leader dell’Uomo Qualunque capace di graffianti battute. Un giorno una ressa di onorevoli faceva la fila davanti a un sovraffollato ascensore per salire al piano superiore. Nobile s’insinuò fra la calca e lasciò Giannini e altri fuori. Ma il politico qualunquista, quando lo rivide, non rinunciò ad apostrofarlo dicendogli: “Generale Nobile, allora ha proprio il vizio di lasciare la gente a terra!”.