22 novembre
Ma i vaccini non sono una partita di calcio
Singolare affermazione, più calcistica che politica, del capo dello Stato, a proposito dell’andamento delle vaccinazioni: “La scienza ha vinto 9 a 1”. Nutro il massimo rispetto per la figura istituzionale del presidente della Repubblica, eppure questo ragionamento non mi convince per almeno due motivi.
Il primo è che, se la democrazia è una comunità di persone che dubitano, la scienza non è un complesso di certezze dogmatiche, ma un eterno confronto con la realtà, fondato sul metodo empirico e di conseguenza capace di mettere in discussione se stesso. Se persino il sistema copernicano è stato corretto dagli sviluppi dell’astronomia, figuriamoci se l’efficacia di quello che per comodità chiamiamo vaccino contro il Covid può costituire una certezza assoluta. Certo i medici bollati come no-vax costituiscono un’esigua minoranza, ma la storia della medicina è piena di studiosi incompresi, che morirono pazzi – come il grande Semmelweis – e solo dopo molti decenni videro accettate le loro intuizioni. Può darsi benissimo che abbiano torto, ma sinora questi cosiddetti vaccini non hanno risolto il problema, visto il continuo insorgere di nuove varianti e soprattutto il fatto che chi è vaccinato resta contagioso, e contagiabile.
Il secondo motivo è che, se si afferma che la scienza ha vinto 9 a 1 per l’alta percentuale di persone che si sono lasciate inoculare il siero, si dovrebbe affermare con la stessa logica che negli ambienti accademici il fascismo nel 1931 vinse sull’antifascismo 1251 a 12. Soltanto un irrisorio numero di docenti universitari infatti rinunciò alla cattedra per non prestare giuramento di fedeltà al regime. La stragrande maggioranza giurò e spergiurò con le più diverse motivazioni: per non lasciare il posto a cattedratici che sarebbero stati più fascisti di loro, per non perdere il contatto con la gioventù studiosa, ma soprattutto per non perdere lo stipendio, anche se il regime avrebbe concesso loro una sia pur modesta pensione. Non a caso, forse, Delio Cantimori, uno dei più illustri fra quanti giurarono, dedicò alcuni lucidi studi al fenomeno del nicodemismo nell’Italia della Controriforma.
L’imposizione del cosiddetto green pass ha prodotto, su un terreno affatto diverso, un fenomeno analogo. Fra chi fino a oggi si è vaccinato c’è chi lo ha fatto per intima convinzione, ma anche chi ha compiuto questa scelta riluttante, costretto de facto se non de jure dall’insostenibilità delle limitazioni e degli oneri che la normativa mutuata dalla Francia impone ai refrattari: con 1300 euro al mese di salario medio è dura pagarsi 12 tamponi al prezzo di almeno 15 euro, per tacere del dispendio di tempo e del fastidio fisico. Conosco molte persone, di tutte le idee politiche e di tutte le età, che mi hanno confessato, quasi scusandosene, di essersi vaccinati riluttanti, per esigenze lavorative, per la pressione dei parenti (tipico il caso dei nonni cui altrimenti non era permesso vedere i nipotini), per non trovarsi del tutto isolati. Per tacere dei medici e del personale sanitario, che si giocavano (e si giocano) il posto.
Lungi da me paragonare il surrettizio obbligo vaccinale all’obbligo liberticida del giuramento di fedeltà al fascismo, ma resta un fatto: si può valutare l’effettivo consenso a un regime politico come a un regime sanitario solo se tale consenso è libero. A parte il fatto che i professori universitari che giurarono lo fecero con l’inchiostro, chi ha accettato il vaccino ha dovuto farlo col sangue.
23 novembre
Più sento parlare i “governatori” e più rivaluto Almirante, col suo discorso fiume contro le Regioni
Chi segue questo sito sa che muovo da tempo molte critiche a Giorgio Almirante. Gli riconosco grandi doti di oratore, di polemista, di parlamentare, oltre al coraggio con cui affrontò la terribile temperie degli anni di piombo e anche la capacità di affrancarsi con sincerità dagli aspetti deteriori del fascismo, come le leggi razziali, a costo di rinnegare parte del suo passato. Gli rimprovero però l’incapacità di perseguire quello che dovrebbe essere il fine della politica: pervenire, anche a costo di compromessi, al governo, senza indulgere alla retorica dello “sconfittismo” tipica di chi proveniva dall’esperienza della Rsi (ma non di tutti: Pino Romualdi, che pure vi aveva avuto responsabilità ben maggiori di lui, aveva un approccio più realistico alla politica).
Non posso fare a meno, però, di riconoscere ad Almirante un grande merito: quello di aver parlato quasi dieci ore di seguito, il 26 gennaio 1970, contro l’istituzione delle Regioni, guadagnandosi l’appellativo di “vescica di ferro”. Era un’epoca in cui in Parlamento si andava ancora per parlare, e non per votare decreti legge, e la nobile pratica dell’ostruzionismo era consentita.
Nella lotta contro l’istituto regionale non fu solo, è vero; anche i monarchici e i liberali vi si opposero. Non a caso Pli, Stella e Corona e Msi erano i tre partiti che portavano nel loro simbolo il tricolore, non ancora “sdoganato” dalla presidenza Ciampi. Ma egli fu senz’altro il più combattivo.
Almirante aveva capito tre cose: che le Regioni avrebbero diviso l’Italia, che avrebbero favorito la nascita di una costosa burocrazia concorrenziale con la burocrazia statale, e che avrebbero consentito al partito comunista, escluso dal governo nazionale, di realizzare una vasta rete di potere nell’Italia centrale (oltre tutto, il Pci in sede costituente, non ne aveva voluto l’istituzione, perorata ingenuamente dalla Dc, come una sorta di controassicurazione nel caso che il 18 aprile avesse vinto il Fronte popolare). Tutte e tre le previsioni si sono avverate, ma l’avverarsi della prima non è stato mai così evidente come in epoca di Covid. Lo scorso anno, si è assistito alle scene più assurde, con il divieto di spostarsi da una Regione all’altra, come se dei confini amministrativi potessero divenire confini di Stato, o il veto opposto da talune Regioni ai residenti in altre (magari proprietari in loco di seconde case, oltre tutto gravati da Imu e imposte locali) di stabilirvisi per non farli gravare sulle strutture sanitarie.
In questi giorni però sto verificando un fenomeno nuovo e ancora più grave: l’alleanza dei presidenti di Regione per sollecitare al governo provvedimenti sempre più restrittivi nei confronti di chi non si è fatto inoculare il siero. L’alleanza supera i confini di partito, perché accomuna “governatori” espressi da coalizioni diverse. Tanto per utilizzare uno dei troppi barbarismi da cui è afflitta la nostra dialettica, è bipartisan. Comune è la richiesta, anche se con diverse sfumature, di trattare da appestato chi non si vaccina. A meno che non si tratti di un gioco delle parti fra governo centrale e Regioni per giustificare un’altra stretta di vite sui cosiddetti no-vax. In sostanza non è più lo Stato a imporre le sue regole alle realtà locali, come prevedrebbe l’antica massima latina “ubi maior minor cessat”, ma il contrario. Governatori leghisti, piddini, o di Forza Italia premono su Roma per imporre un super-green pass sul modello austriaco che non consenta di accedere ai luoghi di svago, ai ristoranti, ma anche alle manifestazioni pubbliche a chi non ha accettato di farsi inoculare il siero. Il tampone non basterebbe più, nonostante che sia, pur con tutti i suoi limiti, più attendibile del certificato vaccinale, visto che l’inoculato può essere contagioso, oltre che contagiabile.
24 novembre
Salvare il Natale. Ma quale?
Un imperativo ricorre sempre più spesso nella dialettica politica e nel dibattito giornalistico: salvare il Natale. Bisogna salvare il Natale da quei cattivi dei no-vax, che, non facendosi inoculare il siero, provocano la moltiplicazione dei contagi, anche se magari se ne stanno tranquilli a casa loro e per andare a teatro o al ristorante spendono (almeno) 15 euro di tampone.
Sì, è giusto salvare il Natale. Ma quale Natale?
Il Natale cristiano, ovvero l’anniversario della nascita di Gesù?
Siamo proprio sicuri che a minacciarlo siano i no-vax e non la logica di una società multiculturale e multietnica che ci impone di sostituire il Presepe con l’Albero, simbolo privo di ogni valenza religiosa, e Gesù Bambino con Babbo Natale, figura priva di connotazioni cristiane (in Norvegia quest’anno si sono inventati anche un Santa Klaus omosessuale), tale da non urtare nessuna sensibilità?
Il Natale festa della famiglia, in un’Italia di famiglie sempre più disgregate, allargate, “liquide”, in cui l’insegnante che osasse proporre il tema “Io e i miei genitori” rischierebbe di essere contestato?
Il Natale festa dei bambini, in un Paese in cui si fanno sempre meno figli?
No, il Natale che Governo e “governatori” vogliono salvare sospendendo i diritti civili a chi non si fa inoculare un siero di cui, a torto o a ragione, non si fida è semplicemente il Natale consumistico. I presidenti di molte regioni non si preoccupano per Gesù Bambino, ma per gli albergatori che nello slittamento dalla zona bianca alla zona gialla o arancione temono di rimanere con le camere vuote, per i ristoratori timorosi di perdere clienti per le feste, per i gestori di impianti di risalita, per i commercianti che temono di trovarsi, come un anno fa, con le vetrine piene di articoli invenduti. Si tratta di interessi legittimi, che non possono però giustificare una sospensione di diritti soggettivi costituzionalmente garantiti.
p.s. il mio Natale era il presepe fatto con la carta marrone con cui costruivo le montagne coprendo i libri ammonticchiati su una vecchia tavola, i prati verdi con la borraccina che mio padre grattava dagli alberi del viale dei Colli, gli anatroccoli sullo specchietto rotondo rubato al beauty case di mia madre, il ghiaino dei sentieri su cui si inerpicavano i pastori verso la capannuccia, l’apparizione la mattina del 25 dicembre dei doni, alla cui origine miracolosa finché potei finsi di credere, perché era bello pensare che non tutto dipendesse dalla regola del pappo e del dindi. Erano i ravioli con la sfoglia tirata a mano di mia nonna, la tazza di latte per l’asinello e il bicchiere di vino (non c’era l’etilometro per le scope, anzi non c’era proprio l’etilometro) lasciati per la Befana la notte dell’Epifania, insieme a una calza vuota che la mattina dopo diveniva magicamente piena. E il rimpianto di un’innocenza la cui perdita sarebbe coincisa con il venir meno dell’innocenza dell’Italia, il giorno prima del Sessantotto.
25 novembre
Super Green Pass: Salvini il grande sconfitto, ma con onore
La partita fra Governo e Regioni si è risolta nel peggiore dei modi. Le restrizioni imposte dal governo a chi non si è vaccinato sono state estese anche all’interno delle “zone bianche”. I tamponi non bastano più per accedere a ristoranti, eventi sportivi, musei, manifestazioni culturali. Serviranno soltanto per recarsi al lavoro, concessione dettata dalla paura che l’assenza dei non immunizzati paralizzi aziende e servizi pubblici. Insegnanti e forze dell’ordine saranno sottoposti all’obbligo vaccinale, pena la perdita dello stipendio.
Il grande sconfitto della seduta del Consiglio dei Ministri è Matteo Salvini, di fatto sfiduciato dai suoi “governatori” e incapace di manifestare una pur simbolica opposizione agli aspetti più esosi del provvedimento. Quando decise di entrare nel governo Conte, pensai che avesse fatto bene, come facevano bene, dal loro punto di vista, i socialisti scegliendo di partecipare ai ministeri di centrosinistra. Avrebbe potuto cumulare i benefici del governo e del sottogoverno, e al tempo stesso pungolare l’esecutivo con i suoi rilievi critici. Oggi ho l’impressione che la sua parabola sia discendente. Un lento stillicidio di consensi, cominciato nell’agosto del 2019 e da allora mai interrotto, sembra arrivato a una soglia critica. Prima o poi, come avviene da sempre nei partiti, arriverà la resa dei conti. Me ne dispiace, perché Salvini, pur con tutti i suoi limiti, è stato uno dei pochi politici disposti a rischiare di persona, e capaci di trasformare un movimento separatista e in molte realtà locali impresentabile in un grande partito nazionale, che nei momenti più fortunati lambiva i consensi della Democrazia cristiana prima di Tangentopoli. Spero naturalmente che Giorgia Meloni raccoglierà parte dei suoi voti, anzi lo sta già facendo. Ma in politica 2 più 2 non fa quattro. E su Fratelli d’Italia incombe ancora il fattore F, almeno da Roma in su.
26 novembre
Ora c’è pure la variante omicron. Ma quando arriveremo all’omega?
Una volta avere fatto il liceo classico, invece dello scientifico o dell’istituto tecnico, comportava alcuni vantaggi, insieme a vari inconvenienti, come quello di non avere un titolo professionalizzante. Uno di questi vantaggi era poter accedere a tutte le facoltà universitarie, l’altro di avere acquisito una padronanza della lingua tale che ti capitava spesso, nelle più svariate occasioni, di sentirti dire da interlocutori ammirati: “si vede che lei ha fatto il Classico”.
Quando lo terminai, mezzo secolo fa, il primo di questi benefici era stato vanificato dalla famigerata riforma Codignola, che permise anche a un perito agrario di accedere a Lettere classiche, ma anche da un mutato clima psicologico. All’ammirativo “si vede che ha fatto il Classico” si andò sovrapponendo e poi sostituendo un sardonico “si vede che hai fatto il Classico” per far notare la tua assenza di senso pratico.
Oggi però debbo riconoscere che avere fatto il Classico, studiando le lingue che impropriamente chiamiamo morte, e che invece sono più vive del maccheronico inglese con cui ci affliggono i nostri burocrati, un vantaggio lo presenta: quello di conoscere alla perfezione l’alfabeto greco. Come avevo previsto, quando cominciò ad affacciarsi la variante Delta, presto si sarebbe dato fondo a tutte le lettere della lingua di Omero (nonché di Sofocle, che di epidemie se ne intendeva). Oggi siamo già alla variante Omicron, che fa tremare le Borse e mette spietatamente in luce l’inanità dei vaccini imposti ope legis. Ma quando finalmente arriveremo all’Omega?
27 novembre
Perché i popoli dell’Est europeo sono così riluttanti ai vaccini?
Sullo scarso numero di vaccinati nell’Est europeo e nei Land orientali della Germania fioriscono varie interpretazioni. C’è chi dà la colpa all’ignoranza del “popolo bue”, c’è chi attribuisce la responsabilità alla propaganda di estrema destra, come se anche a sinistra non esistessero i cosiddetti no-vax. C’è persino chi ha tratteggiato un parallelismo fra i successi dei partiti sovranisti nei Land della ex Ddr e la riluttanza a farsi iniettare il siero. Io, modestamente, suggerirei un’altra ipotesi. I popoli dell’Est europeo hanno imparato sulla loro pelle che cosa significa vedere la propria libertà minacciata dall’onnipotenza di uno Stato onnisciente e onnipresente; vedersi spiati quotidianamente da polizie segrete – dalla Securitate alla Stasi – pronte a interferire anche nella vita familiare. Per questo sono allergici all’intrusione dei governi nelle loro scelte sanitarie, e li preoccupa anche l’imposizione di un vaccino. Sono preoccupazioni che noi occidentali – viziati da settantacinque anni e oltre di libertà, garantiti dall’ombrello nucleare statunitense e dalle logiche di Jalta, – non siamo in grado di comprendere. Mi auguro solo che non le comprenderemo fra breve, con un governo che, come ha osservato qualcuno, è passato nel volgere di pochi mesi in materia vaccinale dalla persuasione (evidentemente poco… persuasiva) all’induzione, e dall’induzione alla costrizione.