Non sono mai stato un fan di Silvio Berlusconi; a farmi provare simpatia per lui, nell’accezione etimologica del termine, piuttosto che le sue scelte politiche sono state la ferocia della persecuzione giudiziaria e la volgarità della campagna mediatica cui è stato sottoposto. Come proprietario di una straordinaria catena editoriale mi ha addolorato la sua rinuncia a utilizzarla per promuovere una seria politica culturale; come politico gli riconobbi la capacità di attrarre in Forza Italia, almeno fino al 2008 figure di indubbio spessore: penso a un Mennitti, a un Melograni, a un Pera, a un Frattini, a un Umberto Cecchi, nella mia Firenze. Purtroppo dopo quella data ho dovuto constatarne la scelta di circondarsi in ruoli chiave di personalità di basso profilo, molte delle quali l’avrebbero abbandonato alla prima occasione, mentre altre contribuivano a rendere impopolare il centrodestra presso vaste categorie sociali. Non mi ha per questo meravigliato più di tanto la sua scelta di spezzare una lancia a favore del reddito di cittadinanza, minimizzando gli abusi a cui ha condotto rispetto ai benefici recati ai veri poveri che ne hanno usufruito. Una scelta secondo me riconducibile ad almeno tre fattori.
La furbata verso il Colle
Il primo, sin troppo evidente, è il tentativo, in vista della prossima elezione del presidente della Repubblica, di recuperare fra i parlamentari pentastellati quei voti che potrebbero risultare decisivi per la sua ascesa al Quirinale. Un tentativo ingenuo, per non dire sfacciato, che difficilmente credo possa andare in porto.
Il secondo è la preoccupazione di differenziarsi dagli scomodi alleati della Lega e di Fratelli d’Italia, in una fase nella quale, complici i modesti risultati delle amministrative e l’infelice conflittualità dei vertici, il loro trend elettorale ha conosciuto una battuta d’arresto. È un po’ di tempo che Berlusconi da un lato fa pesare il “potere coalittivo” del suo partito, determinante per far vincere il centro-destra nei collegi uninominali, dall’altro si atteggia a moderato rispetto alle esuberanze di Salvini e della Meloni, ciascuno con oltre il doppio dei suoi consensi, ma anche con la metà dei suoi anni. Tutto il contrario di due lustri fa, quando si faceva scavalcare a sinistra da Fini.
Il terzo fattore, interessante da un punto di vista psicologico, è legato al fatto che Berlusconi, pur essendo un industriale, non percepisce le conseguenze devastanti del reddito di cittadinanza in quel mondo della piccola impresa che pure ha costituito a lungo la base elettorale di Forza Italia. Quello su cui ha costruito le sue fortune, dopo i primi successi nell’edilizia, è un settore in cui la carenza di manodopera quasi non si avverte. Per scrivere su un quotidiano, per apparire in televisione, ma anche per entrare come assistente in una produzione – magari facendo le fotocopie e portando il caffè sul set dopo aver preso due lauree e un master, – ci sarà sempre la fila. Il problema per molte piccole e medie imprese, ma anche per molte famiglie, è invece reclutare da un lato bassa manovalanza, dall’altro quegli operai specializzati e quegli artigiani che la nostra scuola – dopo le rovinose riforme che hanno stravolto gli istituti professionali – è sempre meno in grado di fornire.
I danni del reddito di cittadinanza
È qui che il reddito garantito ha un impatto rovinoso. Berlusconi forse ha ragione, quando scrive che percentualmente le truffe vere e proprie sono relativamente poche, rispetto ai benefici recati dalla normativa varata dal governo giallo-verde ai veri poveri. Ma la realtà è più complessa. I carcerati, gli extracomunitari, i mafiosi, i camorristi, i romeni che non hanno mai messo piede in Italia, “redditati” grazie a patronati compiacenti e alla culpa in vigilando dell’Inps, sono solo una ristretta minoranza. Il grande problema è costituito da chi non ha chiesto il reddito di cittadinanza perché era stato licenziato, ma si è licenziato, o si è fatto licenziare, per avere il reddito di cittadinanza. Alcuni di loro sono entrati nel limbo dei nullafacenti, contribuendo a rendere difficile la ricerca di lavoratori in determinati settori; altri semplicemente hanno continuato a fare quello che facevano prima, ma al nero. Siccome non è facile reperire certe categorie di lavoratori molti hanno accettato questa scelta, che costituisce per loro un pericolo (in caso d’incidente, rischiano grosso, visto che i lavoratori non sono assicurati), per le finanze pubbliche una perdita secca, visti i mancati introiti fiscali e previdenziali, per i beneficiari del reddito un duplice vantaggio. Risultando in condizioni di povertà, non pagano tasse, ticket sanitari, quote per l’asilo o la mensa dei figli, accedono al bonus bebè, ottengono più facilmente di chi lavora una casa popolare. Non maturano, è vero, contributi previdenziali, ma tanto le prospettive di accedere a un trattamento pensionistico decente stanno scemando per tutti, anche perché le casse dell’Inps sono sempre più gravate da oneri meramente assistenziali. E poi, dopo il reddito, c’è sempre la pensione di cittadinanza, spesso pari a quella di chi ha lavorato in certi settori per tutta una vita.
Mi guardo bene dall’esprimere un giudizio moralistico su certi comportamenti. È difficile stabilire se sia il reddito di cittadinanza troppo alto o i salari siano troppo bassi; è anche la vita che sta diventando troppo cara e induce molte persone a ricorrere a certi deplorevoli espedienti. Comunque se il reddito di cittadinanza ammonta a 700 euro e un lavoro, magari logorante, ne rende mille o poco più, è chiaro che quest’ultimo risulti poco appetibile, specie se obbliga a costosi trasferimenti. Sotto questo profilo un intervento più logico sarebbe stato, invece di sovvenzionare i disoccupati, volontari o meno, integrare con un intervento pubblico i salari più bassi. Ma anche questa soluzione può presentare delle controindicazioni, incoraggiando i “padroni” a lesinare l’aumento ai loro dipendenti, “tanto la differenza la paga Pantalone”.
Le ricette contro la povertà
Il fatto è che quando si parla di interventi a sostegno della povertà non sussistono ricette universali. Nei paesi anglosassoni, dove l’etica calvinista è stata egemone, la convinzione che il povero sia colpevole delle proprie condizioni e che non occorra incentivare l’ozio è tuttora diffusa; nelle nazioni cattoliche prevale una concezione più compassionevole dell’indigenza, che ha condotto a un sistema sanitario aperto a tutti e a forme di assistenzialismo in passato selettive e clientelari. Memorabile la risposta di De Mita, al culmine della sua carriera politica, a un giornalista che gli rinfacciava la pioggia di sussidi nel Mezzogiorno: “Le nostre pensioni d’invalidità sono l’equivalente della cassa integrazione al Nord” (in parte aveva ragione). Il reddito di cittadinanza “grillino” – figlio per altro di una profezia ingannevole secondo cui i progressi della tecnologia ridurranno l’esigenza di lavorare – costituisce una nuova versione universalistica del vecchio assistenzialismo democristiano, che però, per i suoi costi crescenti, rischia di far saltare il banco. Anche perché, a dispetto del nome, del reddito di cittadinanza beneficia anche chi non è cittadino italiano, con un evidente ossimoro.
Il fatto che Berlusconi oggi spezzi una lancia di questa nuova forma di panem et circenses non può che far sorridere, ma di un sorriso amaro. Tanto più che, per chi ha la memoria buona, l’uomo di Arcore nel 1994 aveva iniziato la sua carriera politica promettendo un milione di posti di lavoro, non quasi quattro milioni di redditi da non lavoro. O peggio di lavoro nero.
Patetico
Vorrebbe morire da Presidente, da veri show man. Si rassegni.