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Un romanzo per parlare di Baggio: quando la genialità non si misura col numero delle vittorie

by
21 Gennaio 2012
in Corsivi, Scritti
0

Di incomprensioni con gli allenatori ne ha avute anche lui – con Lippi quasi arrivarono in tribunale – ma Roberto Baggio è troppo Zen per una biografia alla Ibrahimovic, di quelle condite con frasi aggressive e definitive che scalano facilmente la classifica delle vendite. Allo stesso modo costruirne una sui numeri – come ha fatto Roberto Savino nel suo recente Alex Del Piero minuto per minuto – non sarebbe stato altrettanto efficace. Nel corso di una carriera che abbraccia un ventennio, il Divin Codino ha conquistato i trofei che un campione, ma anche un buon gregario, capitalizza in un lustro. Successi che, nel caso di Baggio, si concentrano in un periodo di tempo limitatissimo. Una Coppa Uefa con la Juventus nel 1992-93 e due campionati italiani, uno sempre con la Juventus nel 1994-95 (stagione in cui con i bianconeri vinse anche la Coppa Italia) e uno con il Milan l’anno successivo. Non ha mai vinto – per dirne una – la classifica dei cannonieri. Indimenticabile, poi, l’errore dal dischetto di Pasadena, un rigore che ci svegliò bruscamente dal sogno mondiale di Usa 1994. Come ci ha insegnato De Gregori, tuttavia, non è da questi particolari che si giudica un giocatore.
«Niente può svilire il genio della sua poetica. Tutti sappiamo che non è con le medaglie, le mostrine e le stelle che si misurano le prestazioni». A farsi carico di scrivere un libro letterario sul più grande fuoriclasse italiano di tutti i tempi sono stati Matteo Salimbeni e Vanni Santoni, drammaturgo il primo, giornalista e scrittore il secondo. L’ascensione di Roberto Baggio (Mattioli 1885, pp. 150) non è l’almanacco calcistico di un campione ma «un lunghissimo corteo di ricordi che si intreccia alla vita di una nazione e ne diventa coscienza collettiva». Due decenni di storia e trenta milioni di baggisti. Ognuno dei quali con un ricordo personale di Baggio. «Per vent’anni gli italiani hanno seguito le loro squadre del cuore, ma se lui non giocava nella loro squadra, sempre, prima di 90° Minuto, tornavano a informarsi: “Ha segnato Baggio?”»
Per questo, una biografia non bastava: per raccontare Baggio serviva un romanzo, una “recherche” delle occasioni perdute. Salimbeni e Santoni ne hanno seguito le orme da Firenze a Torino, da Milano a Bologna, da Brescia fino a Vicenza e Caldogno, dove tutto ebbe inizio. Parlando o immaginando di parlare con personaggi improbabili come gli inservienti dello stadio, i monumenti viventi, il bagarino, la ragazza senza auricolari, il giardiniere, l’uomo chiuso in bagno, il pastore e tanti altri. Figure letterarie per un un viaggio alla ricerca del calciatore che, se pure non è mai stato un totalizzatore di record, più di ogni altro ha interpretato la speranza in un’Italia diversa e migliore di quella cui ci eravamo rassegnati. All’Italia catenacciara e brutta, pratica per non dire furba, Baggio provò a sostituire la sua: fantasiosa, sorprendente e brillante. Ci ha illuso che l’Italia del pallone – quale migliore metafora del calcio? – potesse essere un’altra. Perdendo. L’Italia è tornata a vincere nel 2006, a Berlino. Senza fuoriclasse. Così parlò Lippi, che pretese una nazionale operaia, come nella migliore (o peggiore?) tradizione. Una vittoria assai meno bella, ne concludono gli autori, di come sarebbe stata con Baggio. Che ha sfatato la legge non scritta del calcio: un campione aiuta a vincere la sua squadra. In nazionale e nei club. Quel che è riuscito a Platinì, Zidane e Van Basten. A Mancini e Vialli, che riuscirono nell’impresa di far vincere il primo scudetto alla Sampdoria. A Maradona col Napoli. A Baggio no, non è riuscito. Fiorentina, Bologna e Brescia ne sanno qualcosa. Avere in un squadra un fuoriclasse poteva essere bellissimo ma rappresentava anche una maledizione. A dirla tutta, persino quando ha vinto quella Juve e quel Milan, le vittorie non portavano il segno distintivo di Baggio. «Un coniglio bagnato», lo liquidò Agnelli, che voleva calciatori vincenti e non quel ragazzo estroso quanto malinconico, che non è mai diventato l’icona della vittoria. «È rimasto umano – scrivono Salimbeni e Santoni – condividendo lo stesso destino dell’impiegato e del milite ignoto».
Lucio Dalla gli ha dedicato una canzone, Giovanni Raboni un sonetto, Cesare Cremonini, nella sua Marmellata n. 25, ancora non si è rassegna al fatto che Baggio non gioca più. «Eppure chiunque, o quasi, ha vinto più di Baggio, anche Rui Costa, anche Fernando Couto». Malgrado il gol da calcio d’angolo, le duecento realizzazioni in serie A, le cinque doppiette in Nazionale, l’essere stato riconosciuto quale quarto miglior giocatore di sempre, unico giocatore italiano ad aver marcato in tre diverse edizioni del mondiale e unico a fare la sua comparizione sul piccolo schermo insieme a Holly e Benji. Ha recuperato da infortuni che avrebbero stroncato la carriere di chiunque. Rimanendo tuttavia un «nove e mezzo». Il complimento di Platinì, che lo vedeva metà attaccante e metà rifinitore, suona quasi come una beffa. Del resto non sempre ebbe la maglia numero 10, non ci teneva. Una sconfitta con onore, sembra suggerirci, può essere meglio di una vittoria.

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