Unanimemente considerato uno dei grandi maestri del cinema mondiale, Yasujirō Ozu (1903 – 1963) è stato correttamente giudicato dalla critica specialistica internazionale come: “il più giapponese dei registi giapponesi”. Passano gli anni e le “mode cinematografiche”, eppure i suoi film continuano a essere oggetto di culto e di ricerca scientifica. Il suo cinema pacato e delicatissimo è letteralmente venerato da registi e cinefili, e riteniamo che non sarebbe errato né eccessivamente partigiano affermare che il suo stupendo Viaggio a Tokyo (東京物語, “Tōkyō monogatari”, 1953) sia il più bel film giapponese di tutti i tempi.
Il cinema giapponese in un solo uomo, questo fu Ozu
Sinora in Italia, e a esser sinceri non solo, poco o nulla si conosceva dell’Ozu critico cinematografico, di quello che egli veramente pensasse sul suo mestiere e sulla Settima Arte più in generale. La pubblicazione di Yasujirō Ozu. Scritti sul cinema va finalmente a colmare tale lacuna, mettendo per la prima volta a disposizione degli studiosi e appassionati del cinema del Sol Levante una ricca selezione di scritti del maestro giapponese. Argomentazioni intense, quelle di Ozu, che possiamo leggere ora in edizione italiana. Delle riflessioni solo apparentemente “leggere”, segnate da un amore incondizionato, ma non certo “cieco”, per il cinema, che per lui era autentica ragione di vita. Articolo dopo articolo, si ha la possibilità di ripercorrere dall’interno la personalità del regista e scoprirne la profonda umanità.
Trattasi di testi, alcuni brevissimi, altri decisamente più lunghi e ragionati, che coinvolgono a distanza di decenni e offrono spunti e commenti inediti sui suoi film: le tecniche di ripresa da lui preferite e quelle invece aborrite; e le sue personalissime teorie filmiche – famosa è la sua totale avversione verso quella che egli definisce la: “grammatica del cinema” – le sue posizioni nei confronti del cinema americano, come pure i ricordi della Seconda Guerra Sino-Giapponese (1937 – 1945), vissuta in prima persona come soldato al fronte, la quale gli lascerà impressi nella memoria momenti drammatici.
Gli studiosi seri del cinema nipponico concordano nel ritenere che vi sia nella opera di Ozu una costante ricerca di armonia nei rapporti umani, nella quale si percepisce un timore latente nei confronti del rischio della loro disgregazione, a causa della ineluttabilità dei cambiamenti sociali in atto allora nel Paese, i quali non potevano non influenzare pure quelli interpersonali. Ciò che sostanzia il tessuto narrativo delle tante storie da lui raccontate è per l’appunto questa intimità, che fa del suo cinema qualcosa di unico, e non solo nella Settima Arte nipponica. “Far sentire l’esistenza di ciò che chiamiamo vita senza utilizzare avvenimenti particolari”, così Ozu descriveva il suo lavoro di cineasta, fuggendo con sistematica lucidità dal clamore, dall’eccesso. Il Giappone tradizionale, persino quello in buona parte compromesso da una aggressiva modernità di stampo americano, ma ancora presente al tempo del regista, vive di riflessione, di “pause”, quella potente staticità tutta giapponese e che oggi ritroviamo nelle ultime pellicole di Hirokazu Koreeda, segnatamente in: Ritratto di famiglia con tempesta (海よりもまだ深く, “Umi yori mo mada fukaku”, 2016).
Alcune indispensabili riflessioni sulla Settima Arte nipponica
Dario Tomasi, uno dei più quotati studiosi del cinema del Sol Levante in Italia, suggestivamente definisce Ozu un: “cinepensatore” (X), il quale ha, in modo organico e coerente, proposto una propria visione della vita nei suoi film. Quasi in una perfetta consonanza intellettuale, gli scritti racchiusi in questo prezioso volume rafforzano le posizioni del grande cineasta nipponico in materia di società e individualità, questa ultima sovente draconianamente limitata dalle convenzioni di gruppo in Giappone. In ogni pagina scopriamo il pensiero di Ozu, accorgendoci che tutto era già chiaramente espresso nelle sue pellicole. Malgrado la loro apparente semplicità formale, queste non sono così facili da comprendere nella essenza se si è digiuni di cultura giapponese. Lo stesso dicasi per questo libro, poiché se in Ozu troviamo una immediatezza nella scrittura – come avviene nei suoi film – nondimeno il messaggio proposto dalle sue parole non è poi così “diretto”. Tutto deve essere ricondotto a una interpretazione onnicomprensiva di questo artista; i suoi articoli rimandano alle sue pellicole e queste servono per capire le sue idee. Invero, per Ozu contava esclusivamente la sensibilità individuale di ciascun artista, non esistevano correnti, posizioni politiche, ecc. Ciò che uno ha dentro è quello che sarà espresso, così è avvenuto per lui da regista, lo stesso quando si è cimentato con la scrittura. Quindi, Tomasi ha ragione nell’attribuirgli una qualità di riflessione su cosa sia la Settima Arte.
Chi legge Ozu, comprende il regista; chi vede i suoi film capisce il Giappone; non è certo cosa da poco, per un uomo che alla fine diceva di sé di essere fortunato non poiché fosse bravo, bensì perché faceva semplicemente un lavoro che gli piaceva molto e non gli pesava, essendo lui dichiaratamente un uomo pigro.
Questi articoli e interviste a Ozu coprono un arco temporale di circa 30 anni (dal 1931 al 1962). Il volume presenta una organizzazione originale, raggruppando gli scritti non nel consueto ordine cronologico, ma per temi. Riteniamo tale scelta assai felice, giacché così si permette al pensiero di questo artista di giungere al lettore in modo decisamente potente e chiaro, con un messaggio che, sebbene la varietà dei temi affrontati, precisa il senso ultimo di quello che Ozu pensava del suo lavoro, un mestiere dal quale doveva nascere un: Cinema della umanità, come spiegano i due curatori nella Introduzione: “Ed è questa qualità del rapporto fra persone la materia con cui ha costruito quel sodalizio unico e invariato nel tempo con il suo staff, grazie al quale ha realizzato i capolavori che ci ha consegnato” (XXIV).
“Il più giapponese dei registi giapponesi” si è detto in apertura. Il cinema di Ozu può essere riassunto col termine: Nihon teki (日本的), ovvero un qualcosa di unicamente nipponico, e sempre Tomasi riesce a inquadrare bene tali caratteristiche dei suoi film: “Se si può parlare di umiltà della forma nel cinema di Ozu è proprio in conseguenza di questa logica del sussurro, in cui, a volte, il non detto è più importante del detto” (XIII). Ci si riferisce, allora, a quei silenzi che punteggiano i dialoghi pacati di una società, come quella del Sol Levante, ove la forma è pure sostanza, un concetto quasi incomprensibile per noi occidentali e che, francamente, non è nemmeno così presente nel resto dell’Asia. Ecco perché, per dirla con Italo Calvino, “il Giappone è un paese diverso” e le storie raccontate dal suo più importante cineasta ne sono l’esempio, nella loro essenzialità, che non dovrebbe tuttavia essere fraintesa per semplicità. La meravigliosa coerenza di questo artista è rappresentata dal fatto che costui viveva in tal modo, e scriveva parimenti… ricercando la essenza di cose, gesti e idee.
Una pubblicazione utile al di là degli studi cinematografici
In effetti, come si comprende chiaramente dalla lettura di questo libro, a Ozu non piaceva proprio scrivere: “Scrivere mi pesa, in particolare non mi piace scrivere qualcosa per la pubblicazione” (XX). Passare del tempo a bere e parlare sino a tardi con i suoi amici, che spesso e volentieri erano pure dei suoi stretti collaboratori, questo era quello che desiderava quando non stava dietro la macchina da presa. Ciononostante, i suoi articoli sono pregni di considerazioni preziose sul cinema tout court, e, ancor di più, su eventi, luoghi e nomi che hanno segnato indelebilmente la storia della Settima Arte nipponica, il tutto precisamente commentato da altrettante annotazioni a piè di pagina, cosa che fa di questo testo uno strumento davvero utile per chi studia la cinematografia dell’Arcipelago. Una pubblicazione, come correttamente evidenziato dai due curatori, che ha un debito verso le ricerche di Masumi Tanaka: uno dei maggiori esperti di Ozu in circolazione. Ci sentiamo inoltre di affermare che, benché “americani”, per stile e riferimenti, le note e l’apparato bibliografico presenti nel libro sono una piccola miniera di informazioni per uno yamatologo in senso lato e, perciò, non solo interessato alla ricerca sul cinema nipponico.
La poetica di questo cineasta si può riassumere nel dire che in lui la fantasia era contrapposta alla esperienza, poiché Ozu rimase sempre un po’ bambino, non prendendo moglie, e scegliendo di restare a vivere con l’adorata madre: “Mi chiedono spesso meravigliati come diavolo faccio a dipingere la via di persone di mezza età o le stanchezze del matrimonio senza conoscere la vita matrimoniale. Benissimo, ma allora, se posso descrivere solo ciò di cui ho esperienza diretta, vuol dire che dovrei rubare, uccidere e commettere adulterio per poterne parlare” (29). Il lavoro che faceva era per lui una sorta di “hobby impegnativo”, che gli pesava talora soltanto per la fatica fisica delle riprese, ma mai a causa di un sedicente sforzo intellettuale, poiché per Ozu il cinema era un mestiere come tanti. In questo egli era totalmente lontano dai blasonati tromboni della Nouvelle Vague e, per converso, inconsapevolmente vicino alle dissacranti posizioni di Alfred Hitchcock, che soleva beffarsi di quei critici militanti, innamorati in modo perlopiù ideologico della cosiddetta: Politique des Auteurs.
Tornado all’“Ozu critico”, egli qui mostra di possedere un linguaggio asciutto come la diegesi dei suoi film. La differenza tra il critico e il cineasta sta nel tipo di umorismo. Infatti, la penna di Ozu è spesso caustica, perfino cinica, aspetti assolutamente alieni dai suoi film. Una prospettiva disincantata e ironica sull’essere regista, il cinema come mestiere e non arte, questi sono i temi ricorrenti che affronta. Non certo un ribelle, lo si capisce quando parla della sua grande “trasgressione” preferita, che è un salutare “pisolino pomeridiano” (21). Purtuttavia, Ozu ci tiene a chiarire che questo lavoro è una cosa seria, che necessità di precisione. A tal proposito, egli confessa la sua pignoleria per i dettagli, specialmente per quanto concerne scenografie e costumi, un atteggiamento che ci ricorda il nostro Luchino Visconti, enorme regista che, alla stessa maniera del collega giapponese, amava lavorare sulla costruzione della scena, ponendo poi cruciale attenzione nella scelta degli attori. Entrambi, Ozu e Visconti, dediti a un cinema esclusivamente mimetico, benché totalmente artificiale, nel senso buono del termine, in cui ciascuna sequenza è meditata. Questo ha fatto sì che una loro pellicola fosse quasi impossibile da copiare nello stile, come spiegano i due curatori, parlando dell’approccio di Ozu alla regia, il quale: “[…] è sempre soggettivo, qualunque sia l’argomento che affronta. E qualunque argomento ci consente di cogliere una sfumatura in più della sua personalità […]” (XXI). In realtà, in questi due registi non esisteva un confine netto tra la loro vita privata e i film che hanno diretto, essi stessi si riflettevano nelle storie che hanno scelto di raccontare. Ecco perché, essendo Ozu un uomo profondamente legato nella anima alla sua cultura, le sue pellicole rappresentano sempre e comunque ritratti esatti del Giappone, della sua specificità. Pertanto, questo testo, nel fornire la opinione di Ozu sul cinema, anzi, sul suo cinema, si attesta quale utilissima fonte per comprendere la genesi del cinematografia nipponica, per scoprire come in questo Paese essa è nata come industria e non forma d’arte, prendendo ispirazione dagli Stati Uniti, con i grandi studi di produzione, piuttosto che dalla autorialità di marca tipicamente europea. Quindi, Tomasi ha ragione nel sostenere che: “Non sono molti i registi di cinema che hanno accompagnato i loro film con approfondita riflessione scritta sulla loro opera e sul senso della settima arte” (IX).
Sia come sia, Ozu resta un grande maestro, inarrivabile nella gestione della “Economia della forma”, poiché il suo è: “Un cinema votato alla sottrazione, alla riduzione del lessico filmico, all’essenzialità dello stile. Un cinema che cerca di dire di più, di giungere al cuore delle cose, con quanti meno mezzi sia possibile” (XI). Quello che egli intrinsecamente voleva dai suoi film e, in particolar modo, dagli attori era la pervicace ricerca di una purezza plasmata dal limite: “[…] si dovrebbe poter esprimere un’esplosione di rabbia anche senza alzare la voce ” (16); e solamente un giapponese poteva giudicare positiva la riduzione, il contenimento, in un medium, come il cinema, votato alla magniloquenza e all’eccesso.
Il Giappone resta un codice da decifrare senza porre domande
Il “più giapponese” tra i registi era sì un uomo pigro, di poche pretese, ma di certo con le idee chiare su tutto, sono sufficienti gli stessi titoli dei suoi articoli (Vado per la mia strada, Un mio vezzo) per definirlo. Dopo la lettura di un libro come questo, resta onestamente poco ancora da dire su Ozu. Ma lui era così, mite e incline ai piccoli piaceri della vita, la quale, alla stessa stregua delle sue opere, doveva però andare come voleva lui. Allora, quella bella foto inclusa nel volume, col regista che sorseggia il suo amato sake, è sufficiente per capire quanto egli fosse in maniera compiuta il prodotto della sua cultura, del Giappone di quegli anni, del prima e dopo la guerra. Una Nazione-Popolo, che si mostra puntualmente con due facce, semanticamente ambivalente, avrebbe detto Roland Barthes, che proprio a questo Paese dedicò forse il suo libro più riuscito: L’impero dei segni (“L’Empire des signes”, 1970), giacché il sommo linguista e studioso francese riteneva che il Giappone fosse un luogo “codificato”, come lo è, del resto, il cinema del più celebre tra i suoi cineasti: “Guardando i miei film ci sarà chi pensa che io abbia un carattere calmo ed equilibrato, ma state pur certi che ho anche un lato gaudente che mi conferisce in maniera naturale un tono comico” (33).
In conclusione, senza la piena consapevolezza di questa continua dualità, ogni riga scritta sul Giappone rimane un mero esercizio retorico, utile per compiacere cattedratici o degli sprovveduti entusiasti. Tutto è sostanzialmente superfluo nel Sol Levante, malgrado ogni cosa sia poi indispensabile. Capire il “perché” non serve, il “come” invece aiuta, aspettarsi che loro ti spieghino il modo di farlo è non conoscere i sudditi dell’Arcipelago, considerato che Ozu stesso alla fine di risposte ne aveva poche: “A esser sincero, neanche a me è ben chiaro che cosa si debba studiare per diventare registi” (7). Bastano queste sue parole per spiegare che, in Giappone, è meglio astenersi dalle domande, se una cosa deve essere sarà.
* Yasujirō Ozu. Scritti sul cinema (A cura di Franco Picollo e Hiromi Yagi Roma, Donzelli, 2016)
Un ringraziamento alla collega orientalista Annarita Mavelli, che ha gentilmente portato questo testo alla nostra attenzione