Nel corso dell’udienza generale di mercoledì 21 maggio 2014 Papa Francesco ha testualmente affermato: “Dio perdona sempre, le persone umane perdonano alcune volte, ma il creato non perdona mai: se tu non lo custodisci, lui ti distruggerà“. Nello stesso giorno, per una fortunata coincidenza, sulla Gazzetta del Mezzogiorno è apparso in un articolo intitolato “Petrolio e salute, il Cnr avvia lo studio in Val d’Agri” nel quale si dà notizia che due Comuni della Val d’Agri, Viggiano e Grumento nova, hanno commissionato a loro spese al Consiglio Nazionale delle ricerche uno studio che accerti la probabile relazione tra aumento delle patologie riscontrate in Val d’Agri e attività connesse all’estrazione del petrolio: si registrano un aumento del 44 per cento delle patologie cardiorespiratorie intorno all’area del centro oli Eni di Viggiano ed una crescente incidenza delle malattie tumorali. Tutto ciò mentre l’ex presidente del consiglio Romano Prodi, incurante delle preoccupazioni di larga parte della popolazione lucana e della falsità dell’equazione “petrolio = benessere” in un territorio a vocazione agricola e turistica, invita del tutto dissennatamente ad aumentare le quantità di petrolio estratte e a fare altre trivellazioni nella Regione, autorizzando così più che il sospetto che egli parli in realtà a nome delle lobby petrolifere.
Come scrive Salvatore Lucente in un coraggioso e documentato articolo, paventando a ragione che la Regione Basilicata sia caduta in mano alle multinazionali: “trivellazioni e devastazioni ambientali mostrano i limiti dello sviluppo legato all’oro nero. La Basilicata resta una delle regioni più povere d’Italia nonostante abbia il più grande giacimento di petrolio su terraferma d’Europa. (…) In Basilicata, a metà 2012, ci sono 21 concessioni di coltivazione vigenti, tra petrolio e gas con 9 centrali di raccolta e trattamento, 44 pozzi produttivi di cui 24 nella sola Val d’Agri e 83 pozzi destinati ad altro utilizzo, estesi su di una superficie di circa 2100 kmq, cui vanno aggiunti altri 12 permessi di ricerca vigenti, in un territorio regionale di appena 9.992 kmq. Una lunghissima serie di autorizzazioni rilasciate anche in presenza di evidenti problematiche ambientali.
Oltre a queste, pendono 15 nuovi permessi di ricerca richiesti dalle compagnie, per ulteriori 2324 kmq di superficie, che farebbero della Basilicata una regione gruviera, con quasi il 70% del territorio interessato da attività estrattive e buona pace a modelli di sviluppo alternativi. Si trivella in prossimità di sorgenti, corsi d’acqua, dentro fitte aree boscate e centri abitati, in un territorio complesso dal punto di vista idrogeologico e ricco di biodiversità, specie rare come la lontra e il lupo, colture di pregio e soprattutto ad alto rischio sismico. Si trivella all’interno e ai bordi del Parco Nazionale dell’Appennino Lucano, istituito nel 1998 ma nato ufficialmente solo nel 2007 venti giorni dopo l’accordo di programma tra Eni e Regione Basilicata, rimanendo però a lungo privo della perimetrazione necessaria.” (in “Val d’Agri: il dio petrolio e una madonna nera“ tratto da www.looponline).
Dopo l’Ilva di Taranto e la Terra dei fuochi nel casertano la Val d’Agri si pone come terzo ed emblematico caso di uno sviluppo industriale nocivo per l’uomo e l’ambiente, che nel 1997 fu millantato come irrinunciabile occasione per il “progresso” e per l’occupazione: il “progresso” nel corso degli anni si è tradotto in un costante calo del numero di occupati e in un aumento preoccupante delle leucemie mieloidi non ereditarie, del tumore al pancreas e al polmone e di altre patologie legate all’inquinamento dell’aria e delle acque, provocato da sostanze come benzene, idrocarburi policiclici aromatici, polveri di silicio, che derivano dall’estrazione e lavorazione del petrolio. Il monito di Papa Francesco suona come una condanna senza appello per un’economia fondata sulla crescita e sul profitto ad ogni costo. Si aggiunga che la storia della val d’Agri è una storia fatta di affari miliardari e di pressioni da parte della lobby petrolifera, di connivenze politiche e istituzionali, di indagini degli organi di controllo sugli inquinamenti e sulle patologie in aumento che non sembrano siano state né siano condotte con tutto l’auspicabile rigore.
Qualche coraggioso giornalista ha denunciato questo andazzo: “chi si batte per affermare il diritto alla salute e il dovere della tutela ambientale viene spesso messo a tacere o denunciato per procurato allarme” (ibidem). E’ il caso ad esempio del tenente della Polizia Provinciale Giuseppe Di Bello e del giornalista Maurizio Bolognetti, autore del libro “La Peste italiana. il caso Basilicata”, che per aver diffuso i dati sull’inquinamento degli invasi lucani, nel maggio del 2010 si sono trovati rinviati a giudizio dalla Procura della Repubblica di Potenza. Alle associazioni ambientaliste che finora invano hanno chiesto il blocco delle attività estrattive comincia ora ad affiancarsi un’opinione pubblica sempre più allarmata. Basterà questo per fermare la corsa all’oro nero?