«C’erano un veneto, un sardo, un marchigiano, un siciliano, un ciociaro, uno spagnolo, un kazako e due sloveni…». Sembra l’incipit di una delle tante barzellette dove le banalità spesso sono più sorprendenti (e deludenti) di quando apri una vaschetta di gelato e dentro ci trovi il minestrone congelato di mammà. Già, perché da tutti si sarebbe potuto aspettare quel «terroni» al popolo di Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, ma non da un ciclista della squadra con la più alta concentrazione di atleti nativi in quello che tempo addietro si chiamava Regno delle Due Sicilie. E soprattutto, un affronto di tal genere non si poteva attendere da uno “cresciuto e pasciuto” a pochi chilometri dal Garigliano.
Delusione e sorpresa. È la sensazione che hanno provato un po’ tutti quando si è appreso chi fosse il “reo confesso” del caso che ha caratterizzato la tappa campana dell’edizione numero 97 del Giro d’Italia. Valerio Agnoli ha tolto la maschera e ha alzato il dito, prendendosi tutta la “colpa” di uno dei misunderstanding più polemici che il ciclismo moderno ricordi. «L’urlo era rivolto ai miei compagni, ho cercato di richiamare la loro attenzione con il “nomignolo” che mi hanno affibbiato, essendo uno dei pochi meridionali dell’intera squadra. Io sono di Fiuggi. Potevo mai urlare “terroni”?», è l’estrema sintesi della tesi sostenuta a reti unificate dall’atleta dell’Astana nel day after caratterizzato da enormi polemiche a Nocera e non solo. E per chi lo conosce bene, risulta davvero difficile non crederlo. Ragazzo di una compostezza difficilmente ritrovabile in uno sport dove la serietà è merce sempre più rara, da giovanissimo ha messo subito da parte le sue ambizioni per diventare uno dei gregari più affidabili del gruppo. Un comunicatore eccellente: i suoi “tweet” sono un punto di riferimento per gli amanti del mondo delle due ruote. Uno capace di sorprendere sempre: nel 2011 durante la corsa rosa fece un’autentica “carrambata”, chiedendo la mano della sua Giovanna in diretta tv.
«C’erano un veneto, un sardo, un marchigiano, un siciliano, un ciociaro, uno spagnolo e un kazako e due sloveni…». Valerio Agnoli, per proseguire il suo sogno di corridore, è emigrato ad Est. Vai a parlare male dei «terroni» ai kazaki, e guarda cosa succede. Proprio loro, che fra le millenarie tradizioni delle campagne, e l’ultra modernità della capitale Astana, hanno in Pasquale Caprino da Capaccio, in arte Son Pascal, l’equivalente del nostro Tiziano Ferro, e in Albano Carrisi da Cellino San Marco – piena campagna salentina, non la bassa veneta – un feticcio, una sorta di mito, di semi-divinità. Proprio i kazaki, che hanno ricoperto d’oro i pedali di Vincenzo Nibali, il cui soprannome è lo «squalo dello Stretto». Stretto di Messina, naturalmente, non dei Dardanelli.
«C’erano un veneto, un sardo, un marchigiano, un siciliano, un ciociaro, uno spagnolo e un kazako e due sloveni…». Ma ora non c’è più nessuna barzelletta. C’è un’incomprensione grande quanto il Kazakistan. La spiegazione è arrivata. Adesso sta alla sensibilità di ognuno credere se quel «terroni» sia stato voluto o si celi solo un enorme equivoco.
*Pubblicato sul quotidiano Metropolis Salerno