Quando Franco Sensi lo compra dalla Fiorentina per settanta miliardi delle vecchie lire, Gabriel Omar Batistuta ha già trentun anni. Pensate se qualcuno spendesse oggi circa trentacinque milioni di euro per un calciatore di quell’età. Tutti (compreso chi scrive) gli darebbero del pazzo. Nell’estate del 2000, invece, l’allora presidente romanista, stufo dei festeggiamenti dei cugini biancocelesti, decide di spendere una cifra super per il capitano viola. In realtà, Sensi e Batistuta si scelgono reciprocamente, con un obiettivo comune: vincere quel campionato che a entrambi manca. Sul centravanti argentino c’è anche Massimo Moratti che, però, stavolta non riesce a prendere quello che vuole, cosa rara in anni in cui, pur senza risultati, l’Inter rastrella il mercato come un caterpillar. E quindi, settanta miliardi alla Fiorentina, dodici all’anno al calciatore. Il resto è storia: la squadra di Capello campione d’Italia, Batigol capocannoniere giallorosso con venti gol. Durerà poco quell’idillio da sogno, colpa di ginocchia e caviglie traballanti e di un’età non più verde. E’ stata una storia breve ma piena di passione. Anche perché il suo matrimonio, Gabriel Omar il Grande, l’ha già consumato. A Firenze, un amore lungo, intenso, tormentato.
Mario Cecchi Gori lo porta alla Fiorentina nell’estate 1991, da campione d’Argentina col Boca e del Sudamerica con la Selecciòn. Bati è stato capocannoniere di entrambe le competizioni, un dominatore assoluto. Dopo qualche difficoltà di ambientamento, l’impatto col calcio italiano è altrettanto devastante: nelle prime due annate, viaggia alla media di poco più di un gol ogni due partite. Con la Fiorentina, Batistuta retrocede anche in B, ma, nonostante tutto, vola ai Mondiali del 1994 negli USA, perno di una nazionale di cui è, ancora oggi, il miglior marcatore di sempre con cinquantasei gol, un record che non può mai essere banale se l’uomo che superi si chiama Maradona. Vince la Coppa Italia e, l’anno successivo, zittisce il Camp Nou in semifinale di Coppa delle Coppe con un gol da favola. Passa dall’esultanza fermo vicino alla bandierina, che gli varrà anche una statua dai tifosi, a quella della mitragliatrice degli ultimi anni. Segna in Supercoppa Italiana contro il Milan e urla “Irina te amo” alla telecamera. In Champions League, con Trapattoni in panchina, vive notti magiche, come quando abbatte la porta di David Seaman da una posizione impossibile a Highbury. Ma non basta. Un campione così non può vivere di sole soddisfazioni personali. Vuole lo scudetto e, a trentun anni, dopo averne passati nove sull’Arno e aver rifiutato decine di offerte, decide che è arrivato il momento di andarselo a prendere. Di quei venti gol, uno, forse, non lo avrebbe mai voluto segnare: il 26 novembre 2000, contro la sua Fiorentina, con una volée dal limite dell’area, che abbatte Toldo e regala alla Roma tre punti fondamentali per lo scudetto. Il Re Leone scoppia a piangere, sommerso dagli abbracci dei compagni.
Finisce la carriera in modo malinconico, con valanghe di gol in Qatar, lasciando l’Italia dopo sei mesi in prestito all’Inter di Massimo Moratti che aveva rifiutato in quell’estate del 2000, afflitto da perenni dolori alle caviglie, che anche oggi non gli danno tregua. Nonostante un finale un po’ triste, però, la sua carriera rimane un kolossal bellissimo e malinconico, anche oggi, a quarantacinque anni compiuti l’1 febbraio. E allora, auguri Re Leone.