Prima dei Velvet Underground, c’erano i Primitives. C’era Lewis Allan “Lou” Reed, newyorkese di Brooklyn, classe 1942. C’era “The Ostrich”, la prima canzone che porta la firma di Lou Reed, una parodia delle musiche ballabili degli anni ’60, composta quando Reed lavorava per l’etichetta Pickwick Records, e suonata con le corde della chitarra tutte accordate sulla stessa nota, con effetti sonori che ricordavano quelli del gruppo di Young. C’era il gallese John Cale, violista di formazione classica, a cui “The Ostrich” era rimasta nel cuore.
Loro, insieme al chitarrista e bassista Sterling Morrison e alla batterista Maureen Tucker, sono diventati i Velvet Underground. È il 1964, e sulla scena musicale della Grande Mela irrompono i musicisti che cantano i tabù, come la droga, le perversioni sessuali, la realtà delle strade di New York. Lou Reed e i suoi, più interessati alle parole che alle melodie, che hanno fatto conoscere all’America il rock che non era fatto di testi adolescenziali, come quelli degli anni ’50 e dei primi anni ’60. Lou Reed, che quegli anni ’60 li ha plasmati, a sua immagine e somiglianza e ha regalato a New York il rock rivoluzionario prima ancora che l’America vivesse la sua rivoluzione. I Velvet Underground, che sono diventati un simbolo per quelli che sono venuti dopo, influenzando e ispirando altri movimenti come il noise, il new wave, il rock alternativo, il punk americano e britannico. Tanto che l’inglese Brian Eno, una volta, ha detto che “tutti quelli che hanno ascoltato i Velvet Underground, poi hanno formato un gruppo”. Tanto che, nel giorno della scomparsa di Lou Reed, avvenuta il 27 ottobre per cause ancora sconosciute, tante voci, così lontane e distanti tra loro, si sono unite nel ricordo autentico del padre della musica popular. La miglior musica popular, dagli anni ’60 ad oggi. Lou Reed, e le sue poesie dedicate agli antieroi, ai vinti. Lou Reed, poeta maudit, la voce aspra del rock, le sue poesie strafatte, spesso come lui.
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Una copertina bianca, una banana disegnata da Andy Warhol. “Sunday Morning”, “Venus in Furs”, “I’m waiting for the man”. Ma anche “European Son”, brano dedicato a Delmore Schwartz, scrittore, poeta e professore di Lou alla Syracuse University. Questo è “The Velvet Underground & Nico”, il primo LP della band del rock. Ma dopo poco tempo, Nico – che proprio Andy Warhol aveva portato nella band – lascia il gruppo. Lou licenzia Warhol. Dopo “White Light/White Heat”, se ne va pure John Cale. Rimane Lou, con i Velvet che i Velvet non sono più. Con loro produce “The Velvet Underground” e “Loaded”, considerato dai più, allora, un cd commerciale, anche se brani come “Rock ‘n’ Roll” e “Sweet Jane” sono rimasti nella storia e nella memoria della musica. Nel 1970, Lou è solo. Ha lasciato i Velvet Underground, ed è pronto ad intraprendere la sua carriera da solista. Da solo, Reed è spesso inquieto, a tratti imprevedibile, camaleontico. Ma sempre innovatore.
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“Lou Reed” è il suo primo cd da solista. Poi, arriva “Transformer”, prodotto da David Bowie, che regala al pubblico brani come “Walk on the Wild Side”, con quel giro di basso e quel “dududù” che suoneranno per sempre. C’è poi “Satellite of Love”, “Vicious”, e “Perfect Day” che finisce dritta nella colonna sonora di “Trainspotting”, il film cult del 1996, diretto da Danny Boyle e tratto dall’opera omonima di Irvine Welsh, di tre anni prima. Arriva poi “Berlin”, il suo terzo lavoro da solista. È il 1973, e la produzione dell’album è affidata a è Bob Ezrin, lo stesso che, sei anni dopo, avrebbe prodotto “The Wall” dei Pink Floyd. In Berlin, Lou analizza la fine di un matrimonio, nel momento in cui il cantante statunitense sta vivendo il divorzio da Betty Reeds, sua prima moglie. Quelli che seguono la pubblicazione di “Rock ‘n’ Roll Animal”, “Sally Can’t Dance” e “Lou Reed Live”, sono anni difficili, come altri già vissuti dal cantante. A partire dalla terapia di cura elettroshock cui è stato costretto a sottoporsi da parte della famiglia nel 1956, appena adolescente, per curare la sua bisessualità. Quest’esperienza, dolorosa, è diventata poi una canzone, “Kill Your Sons”, del 1974.
Il suo esaurimento, le sue nevrosi, il suo consumo di droga, soprattutto metedrina: tutto questo diventa “Metal Machine Music”, la sua ‘opera di rottura’, totalmente rumoristica, fatta principalmente di lunghissimi feedback di chitarra. Dopo “Coney Island Baby”, arrivano a chiudere il suo decennio da solista “Rock ‘n’ Roll Heart”, “Street Hassle” – con la straordinaria partecipazione di Bruce Springsteen – e “Growin Up in Public”. Una nuova possibilità per Lou Reed sembra arrivare dall’incontro con Robert Quine, chitarrista punk. I due si piacciono, e insieme lavorano a “The Blue Mask”. Poco dopo, però, Lou allontana Quine. Da solo incide “Mistrial”, considerato il cd più deludente della sua carriera. Seguono anni di silenzio, fino al 1987, quando Andy Warhol muore. Allora Lou torna a lavoro, la scrittura è un diversivo, una distrazione, un riparo al suo dolore. Arriva così “New York”. Al funerale di Warhol, Lou incontra nuovamente John Cale. Insieme, i 2 progettano “Songs for Drella”, un’opera in memoria dell’artista scomparso, che vede la luce nel 1990. A chiudere quella che viene considerata ‘la trilogia del dolore’, c’è “Magic and Loss”, album dedicato a Doc Pomus e Rita, due cari amici che Lou ha perso. Il suo ultimo album, “Lulu”, in collaborazione con i Metallica, è uscito nell’ottobre 2011.
“Ho perso tutto ora, per sempre. A differenza di tante altre persone con storie simili, noi abbiamo riversato la nostra rabbia migliore nei dischi, per darne al mondo uno scorcio. Le risate che abbiamo condiviso qualche settimana fa, mi ricorderanno per sempre tutto ciò che c’era di buono fra noi”. L’ha detto John Cale, salutando per l’ultima volta il suo amico maudit.