Richard Ford torna in libreria con Scusate il disturbo (Feltrinelli). Esponente di spicco del “realismo sporco”, una costola del minimalismo letterario, nato negli anni Settanta del Novecento, non ricostruisce ambientazione e personaggi: naturalisticamente, li fa vivere. Descrizioni ridotte all’osso, prosa scarna, esornativi e avverbi minimi, precisione lessicale, stringatezza sintattica caratterizzano la scrittura di Ford. Il lettore, catapultato ex abrupto nel racconto, non fa fatica ad affiancarsi all’everyman, protagonista della narrazione. Ford, infatti, analizzando le ansie e i tic della middle class, la spasmodica ricerca dell’accumulo, le relazioni precarie, gli amori finiti, i matrimoni minati da stanchezza e noia, i divorzi, parla di tutti noi. Nei nove racconti che compongono Scusate il disturbo, prevale, tuttavia, una vena malinconica, legata alla riflessione sul tempo che scorre e sul “passato che impatta sul presente e lo influenza”.
Il titolo Sorry for your trouble, ricalcato su una formula di condoglianze utilizzata durante i funerali irlandesi, anticipa l’atmosfera di dissoluzione e penombra esistenziale che permea il libro.
I più, tra i protagonisti di Scusate il disturbo, infatti, sono alla soglia della vecchiaia, incerti e vacillanti, pronti a cogliere gli echi larvati di una giovinezza ormai lontana, che affiorano a mo’ di ricordi involontari. Frammenti di memoria attivati da “stimoli esterni complessi” come un oggetto, una frase, un volto. Accade in Traversata, “le gambe grosse in una gonna troppo stretta” di una donna incrociata per caso su un battello, rimandano Tom indietro ai tempi dell’Università in Lousiana, all’incontro mancato “con una ragazzona nemmeno troppo attraente”. Sono le assenze quelle che affliggono il protagonista lasciandogli la “ridicola sensazione che la vita sia non esattamente un sogno”, piuttosto una gigantesca “bugia”, un nastro che si dipana senza un senso, “una parabola” che si vive realmente “solo negli ultimi secondi prima che la morte sbatta la porta”. Nel racconto, i piani cronologici si intersecano in un andirivieni continuo, dal remoto sbuca Patsy, la moglie da cui egli ha divorziato, che lo ha abbandonato per andare in Groenlandia con le figlie a “camminare nel gelo riparatore” per guarire dai suoi massacranti tentativi di “capire”. L’immagine della donna s’incunea, tra aride lacrime di solitudine, durante la traversata sul Mare d’Irlanda.
In Niente da dichiarare, l’avvocato Sandy McGuinness incontra, per caso, dopo decenni, un’antica fiamma. In gioventù si faceva chiamare Barbara, ora si spaccia per Nail. È un salto all’indietro, nell’età dell’innocenza, il cui ricordo “trema nel ricolmo secchio” (Montale) degli anni trascorsi al punto che il passato stesso risulta “deformato” e alienato. Sandy e Barbara-Nail provano a rivivere l’ebbrezza di un bacio. È un attimo che li consegna inesorabilmente al “mare della tranquillità” di un’esistenza banale: “Non c’erano stati danni, nessuno era rimasto deluso. Non l’avrebbe vista più”, questa consapevolezza rinforza la “fiducia” a vivere “senza scosse questa serata e innumerevoli altre” in compagnia di sua moglie e delle sue figlie.
In Happy e in Andando su, il secondo e il quinto racconto della raccolta, domina un senso di disfacimento. Nel primo, Mick O’Riordan, un talentuoso editor irlandese, è stato stroncato da un infarto. Bobbi Kamper, detta Happy, la sua compagna, una scultrice di un certo successo, capricciosa, volubile ed egoista, raggiunge il cottage dei Thompson nel Maine. Qui sono invitati anche i Jacobson: “erano stati tutti e sei una bella squadra, negli anni Novanta, quando Esther e Tommy avevano il vento in poppa come romanzieri e Sam e Janice se l’erano cavata con una galleria d’arte”. Pseudointellettualoidi insoddisfatti, sono costretti, con la morte del loro amico, ad interrompere il monotono carioca “tra ristoranti alla moda, bevute tra amici e club”. Almeno per lo spazio di un weekend, i cinque sono obbligati a dedicare un’ultima cena alla memoria del vecchio Mick. Con ferocia, lo sguardo tagliente dell’autore si sofferma, espressionisticamente, sul particolare dell’urna con le ceneri palleggiata tra i presenti.
In Andando su, Cathleen O’Connor, uno dei tanti irlandesi che popolano l’opera di Ford, ritorna à rebours nel ghiacciato Canada, per salutare il suo vecchio amante Ricky Grace, oramai agli sgoccioli. Ella, bloccata dal tedio e dalla noluntas, vorrebbe rinunciare al viaggio: ha paura di misurarsi col dolore. A questo punto, la donna sogna che l’uomo sia già morto. Il sogno, inaspettatamente, rivela l’impulso di rimuovere il ricordo “sporco” e seppellire l’evento traumatico nelle profondità dell’inconscio. La discussione ‘onirica’ tra i due mette a confronto, infatti, le rispettive visioni del mondo e sul mondo: il principio di realtà di Cathleen, che ha scelto pochi ma sicuri guadagni negli States, si contrappone all’élan vital di Richard che lo ha motivato rimanere nel wild North per dedicarsi all’arte.
L’alterità tra le direttrici Nord-Sud, Canada-Stati Uniti, attraversa l’ampio arco artistico di Ford. Se il Canada selvaggio è il luogo della libertà e dell’opportunità, gli States rappresentano uno spazio asfittico, distortamente patriottico, dominato dal pensiero unico, dal quale accomiatarsi per sfuggire “alla leva, alla guerra e a tutte quelle morti di cui il paese sembrava allora (scil. ai tempi della guerra del Vietnam) entusiasta”. Il Maine, ove l’autore ha vissuto per un po’, sembra l’ombelico del mondo, “un ottimo posto da cui ripartire” (Jimmy Green), al contrario, New Orleans, Cadmus risultano specchio di un provincialismo soffocante e limitante.
La morte del padre trascina Harry Harding nella condizione di “fuori posto” o di “cliente di passaggio”, marginale ed escluso: “Quando ti muore tuo padre e hai solo sedici anni, cambiano molte cose….la gente ti compassiona, ti sminuisce, ti mostra persino del risentimento: per cosa, non lo sai. È diversa l’aria intorno a te. Un tempo quell’aria ti conteneva tutto. Ora si è aperta una breccia”. La precarietà esistenziale del ragazzo è accentuata dall’inconcludenza materna, finché nella “casa del telefono”, uno squallido residence di periferia, non sopraggiungono i MacDermott, irlandesi e cattolici, che diventano il polo centripeto attorno al quale inizia a ruotare l’esistenza della vedova e dell’orfano. L’”irlandesità”, un motivo ciclico nella produzione di Ford, nell’ottica manichea della protagonista femminile del racconto, è un rifugio sicuro dai torti del mondo: “c’era qualcosa nell’essere irlandesi che metteva al riparo dai fastidi. Che permetteva ad una vedova come lei di avere una visione più rosea del mondo”. Niall MacDermott incarna appieno lo spirito intraprendente della terra d’Irlanda: vivace, pronto intellettualmente, è vitalisticamente dominante, Harry, al contrario, appare inetto e fuori fase, osservatore muto e adorante: “dall’essere irlandesi si ricavavono lezioni che valeva la pena imparare”. Singolare racconto di de-formazione, Fuori fase si conclude con una tragica consapevolezza sulle incertezze dell’adolescenza, un baratro senza margini in cui “la differenza tra bene e male… si confondeva”, inesorabilmente.
Sandro Veronesi, il più fordiano tra gli scrittori italiani, definisce la poetica dell’ultimo Ford un’”egira verso Dublino”, un viraggio evidente verso i maestri del Novecento irlandese. Con Beckett e Joyce, il Premio Pulitzer del ’96 condivide, effettivamente, temi e atmosfere. La percezione del fallimento artistico, l’impossibilità per la ragione di mettere ordine nel caos del mondo, l’attesa sfibrante e annichilente di un godot che dia il senso dell’esistere. L’avvocato Peter Boyce, in Mantenere il controllo, tenta di rielaborare il lutto della moglie suicida: è afflitto da uno “strazio” che si trasforma in “un’agitazione clamorosa e difficilmente governabile”. La casa sull’Oceano nel Maine si rivela, però, però, tutt’altro che un rifugio sicuro per lui. Lì le nere nubi della solitudine lo perseguitano e l’incomunicabilità con la figlia Polly peggiora il suo sconforto.
L’illusione di una rinascita si materializza, tuttavia, nella figura cristologica di Jenna (ma quanto Joyce!) Costei, una vagabonda senza arte né parte, si trasforma in “un prodigio”, accompagnato da segnali divini e miracolistici: “qualcosa di invisibile” si libra, infatti, nel cielo, all’apparizione della donna.
La “paralysis” spirituale di Jonathan Bell e Charlotte Porter di Seconda lingua li condanna ad una vita di “superficie”: “La vita è soltanto questo. Superficie”, composta da una “carta strana e inconsistente”. Tale cognizione liquefà il loro rapporto. La paralisi joyciana, imputabile alla crisi religiosa e morale dei primi del Novecento, viene riattualizzata da Ford dall’esplosione della bolla dei subprime, che ha scosso dalle radici la società globalizzata: infatti, se prima, nel “1983… la vita poggiava su qualcosa di solido” – riflette Jonathan- il presente è slittante e liquido. I personaggi joyciani e quelli fordiani sono ambigui sperimentatori introspettivi, spesso incatenati a un comodo cliché borghese, che si rivela innegabilmente una trappola da cui fanno fatica a liberarsi, finché un’epifania provoca uno strappo nel cielo di carta: “l’anello di un braccialetto cadde con un rumore quasi impercettibile su un altro braccialetto. Un sospiro.” Da quel momento, Charlotte inizia a temere che Jonathan desideri trasformare il loro matrimonio in una “vicinanza sempre maggiore, fatta di complicazioni condivise, di frizioni sempre più difficili da superare che portavano ad abissi ancora più profondi di intimità e conoscenza reciproca” e, perciò, fugge chiedendo il divorzio: avrebbe voluto che “lui l’amasse per quello che era…ma che non la considerasse qualcosa di più …che non la scoprisse, che non la esplorasse e la imparasse come una seconda lingua”.
Il momentaneo abbandono del “terreno rassicurante del romanzo” per addentrarsi nel “sentiero scivoloso del racconto” (Rossella Milone), a quasi dieci anni da Rock Springs, rivitalizza un genere letterario che molti critici danno per moribondo. Anche la scrittura distillata del racconto, che consente di gettare sul mondo “uno sguardo da un punto elevato” (Boris Ejchenbaum), pone Ford nel solco tracciato dai due mostri sacri irlandesi.
La decadenza e la fragilità dei vari Jonathan, Peter, Happy, Harry è quella di tutti noi, morbosamente attratti dalla rappresentazione dell’epilogo del nostro stesso cammino.