Quando mio padre leggeva Carolina Invernizio (Tabula fati) di Pierfranco Bruni si lega strettamente a un suo precedente testo, La bicicletta di mio padre (2011) e, in parte, a Passione e morte. Claretta e Ben (2012). Il libro, uscito a gennaio di quest’anno, è strutturato in piccoli succosi capitoli dai titoli evocativi, corredato di foto d’epoca e arricchito da brevi citazioni dei suoi autori preferiti (da Berto a Pavese a Quasimodo) poste alla fine di ogni capitolo.
Poeta, scrittore, critico letterario, Bruni, che qui si definisce «viaggiatore insonne che disordina le mappe dell’esistente nel mio scrivere», affronta il tema del rapporto con l’amato padre. Sono pagine incisive, scritte con affetto e afflato poetico, sul filo della memoria e dunque della nostalgia. E la nostalgia, a ben vedere, è l’anticamera della poesia. Infatti: «l’essenza della poesia è la nostalgia: la poesia canta la vita in rapporto al suo svanire» (Marcello Veneziani).
Tutto ha inizio col ritrovamento in un cassetto da parte dello scrittore di un romanzo di Carolina Invernizio, che il padre leggeva, rileggeva e chiosava fin dall’età di undici anni. Ma chi era Carolina Invernizio? E perché il padre, che leggeva Goethe e Berto e che ai primi anni del liceo aveva regalato al figlio Così parlò Zarathustra di Federico Nietzsche, non disdegnava questa autrice così disprezzata dalla critica e così amata dalle donne? Un’autrice, per inciso, che ha scritto tantissimo, più di centotrenta romanzi tra la fine dell’Ottocento e i primi quindici anni del Novecento.
Probabilmente, il padre di Bruni leggeva Carolina Invernizio – ma è una prima incompleta risposta, c’è sempre un margine di inespresso nell’indagare l’animo altrui – perché c’erano «l’amore il sentimento la sensualità tra le pieghe dei suoi romanzi»; perché consentiva (alle sue lettrici e ai suoi lettori) di sognare e di immedesimarsi nei personaggi che sapeva tratteggiare con senso di umanità.
Ma da questa domanda: perché mio padre leggeva Carolina Invernizio?, si diparte una personale ricerca del tempo perduto attraverso la scrittura, una sorta di «metafisica del cuore»: «questo scavare nella vita di mio padre è uno scavare in ciò che lui è stato, ma soprattutto in ciò che io sono stato». Senza memoria non c’è identità, e ciò vale per gli individui come per le nazioni. Ed allora le storie personali si intrecciano alle storie collettive, alla Storia propriamente detta.
Così lo scrittore rievoca la figura del padre fascista, che mai smise la camicia nera, anche dopo l’8 settembre e il 25 aprile, la sua fedeltà a un’idea, che era poi nient’altro che fedeltà alla Patria: «Tu non hai mai creduto al 25 aprile come giorno di liberazione… Da chi siamo stati liberati, mi hai detto un giorno, noi che abbiamo sempre difeso un’idea che è quella della Patria, della Nazione, dell’Inno nazionale (…) non smetto di osservare le tue foto di una giovinezza in Camicia Nera e come te non ho mai creduto ad una storia condivisa… Anche oggi che sono stanco di discutere su questi argomenti, sul piano storico e letterario, la condivisione non mi appartiene, come non mi appartiene Bella ciao, perché io resto italiano e quell’inno del Tricolore (…) resta il canto della mia coscienza… del mio essere italiano».
E toccanti, nel racconto che ne fa il padre al figlio, sono le vicende drammatiche degli Italiani di Dalmazia, barbaramente trucidati dai comunisti di Tito, avvallati da quelli nostrani: «Erano semplicemente Italiani. Per anni nessuno si ricordò mai dei morti infoibati, anzi dei vivi infoibati per mano comunista. La storia non si ripete, ma la storia va raccontata. Iliana e Gabriele sono rimasti intrappolati tra le foibe. Per amore e per l’Italia e per le nostre coscienze non vanno dimenticati. Era la primavera e poi l’estate del 1947. Una storia vera (…) Mio padre, tra i tanti racconti, mi ha lasciato anche questo dettaglio di storia e di esistenza».
Ma dietro la figura del padre che leggeva Carolina Invernizio si intravede quella della madre, che «ricamava camicette»: «Mio padre dialogava con le tartarughe. Mia madre pregava Cristo e Maria. Io sono a metà strada tra la lentezza della tartaruga e la pienezza di Cristo». E dietro i genitori si stagliano altre radici: la cultura arbereshe degli avi, il mondo bizantino e la cultura della Magna Grecia che fiorì nella natia e magica terra di Calabria: «Mio padre, figlio di mamma arbresce; io, suo figlio di nonna arbereshe, ho sposato una donna arbereshe e sempre di Spezzano Albanese. Questa arbrescità la porto dentro (…) e sempre gli archetipi di un mondo orientale sono stati al centro delle mie passeggiate. Io che non mi reputo un cattolico ma un cristiano senza chiesa e negato alle liturgie ho sempre considerato l’ortodossia un pregio e il mondo bizantino è nel mio Oriente».
Bisogna essere creativi sino all’ultimo istante, ripeteva il padre dello scrittore. E Bruni ha raccolto una preziosa eredità dalla famiglia, dalla patria, dalla religione e si è fatto scrittore: «Raccontare del tempo che se ne va è come raccontarsi. Eppure le rose del giardino non contano più le ore o le stagioni. Sono rimaste lì asciugate dalla pioggia o rigate dal sole… Ogni passaggio di parole è un vento tiepido nella carezza di una notte, che sembrava infinita (…) Non si scrive per scrivere. Queste pagine si scrivono per amore. Per amore soltanto e per non restare nella solitudine».
Bella recensione.