Si arricchisce di un contributo rilevante e non scontato la riflessione sul sovranismo grazie all’ultimo lavoro di Valerio Benedetti: 300 e più pagine blindate da un’armatura di note di tutto rispetto che ben si sposano con la mission della collana di Altaforte della quale fa parte. Fornire, cioè, “La Bussola” a chi controcorrente voglia far propria l’esortazione del navigare necesse est nel mare di inesattezze e strumentalizzazioni “sul” e “del” tema in questione.
Sovranismo. La grande sfida del nostro tempo ha infatti, in primis, il merito di configurarsi come un’introduzione e, al contempo, un approfondimento culturale su tutto ciò che ruota intorno a questo termine. E che si innesta nell’ambito di società occidentali ormai profondamente dilaniate al loro interno, scisse da una frattura tutt’altro che sanabile in due fronti contrapposti: «il primo […] quello dominante (ma non necessariamente maggioritario) che ha assunto il nome di globalismo. L’altro, quello dissidente, […] definito sempre più spesso sovranismo» [p. 5].
Più che un confronto, infatti, fin dal suo diffondersi, il sovranismo ha prodotto, suo malgrado, uno scontro poiché immediatamente inteso come “reazione” a quanti già da tempo erano impegnati in un’opera politico-ideologica di demonizzazione dello Stato nazionale prodotto dall’età moderna. Quello “Stato”, cioè, che aveva nella storia della comunità una premessa ineludibile e della quale l’identità ‒ anch’essa nazionale ‒ affondava le proprie radici.
La storia della seconda metà del Novecento, d’altra parte, è riassumibile ‒ se intesa non solo come histoire événementielle ma «come analisi storica di una realtà a più dimensioni in cui événementielle e non-événementielle si tocchino fino a coincidere» [1] ‒ come una progressiva e imposta transizione «dallo Stato ad una mondiale organizzazione politico-morale avversa e opposta allo Stato ma, a ben vedere, dotata di principi-guida e finalità nient’affatto diversi da quelli dell’antico e deprecato “Stato etico”» [2].
In quest’ottica pare particolarmente felice l’interpretazione fornita dall’Autore di un globalismo considerabile come una sorta di incesto liberal-marxista che mirando «al totale annientamento del nemico e di ogni pensiero dissidente» [p. 36] ha influenzato la cultura occidentale ben prima del “Sessantotto” o del crollo del Muro. I «padrini dell’ideologia globalista» [p. 39] muovono i loro primi passi presso la tristemente nota “Scuola di Francoforte” che si fece interprete della «grande frattura con Marx» ritrovandosi «a difendere il capitalismo e la tanto disprezzata “società amministrata” (disprezzata almeno a parole)» [pp. 39-40].
È quello, quindi, il momento dal quale tutto partì alla volta di una progressiva desertificazione della cultura e di un’inesorabile socializzazione degli studi storici, entrambe funzionali alle necessità di una tecnica economica che aveva reciso ogni legame con i postulati classici dell’economia politica.
Sostituendo, de facto, Atene con Francoforte [3], si trovò nel nuovo soggetto rivoluzionario e geneticamente sfruttato ‒ “la minoranza” ‒ una nuova classe rivoluzionaria, quella del migrante inteso come «intrinsecamente nomade, un individuo sradicato, senza più origine né destino; […] un atomo irrelato e in perenne movimento (e quindi impossibilitato a radicarsi) esattamente come le merci e i capitali» [p. 42].
Il che ha facilitato l’emergere di un «apparato di potere “decentrato e deterritorializzante” che progressivamente incorpora l’intero spazio mondiale all’interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione» [4]. Che si è rivelato tale dopo decenni segnati da esperimenti di nuovi assetti giuridici internazionali ‒ su tutti, i “Trattati di Roma” del 1957 ‒ preludio non tanto e non dell’Unione europea ‒ per come viene ben descritta, dal golpe bianco del 2011 alla questione tedesca [p. 248 e ss.] ‒ quanto di una più generale e pericolosa fine di una cultura correlata allo Stato nazionale, all’identità, alla traditio intesa latinamente come “passaggio del testimone”.
Il sovranismo inteso come “ritorno nella storia” e, quindi, come reazione ad un globalismo che mira invece a portarci ‒ tutti ‒ fuori da essa, diventa così un sinonimo di libertà: quella di non essere più solo attori, ma protagonisti dell’histoire événementielle.
Declinando ciò a livello nazionale, la questione assume un’importanza fondamentale poiché «la debolezza della comunità nazionale, la sua mancanza di sovranità, non può che ripercuotersi su tutti i suoi membri» rendendo un popolo, alla fine, incapace «di distinguere gli amici dai nemici». Quando questo avviene, infatti, «saranno sempre gli altri ‒ molto più spesso i nemici ‒ a farlo per lui» [p. 131] in quanto chi perde le proprie radici, diventa inevitabilmente un numero nella massa perdendo, come scriveva Eric Voegelin, la consapevolezza dell’individuo [5].
Impostare in tal modo i termini dell’analisi sul tema, contribuisce ‒ e non poco ‒ a fare del sovranismo qualcosa di più di un abito politico da indossare prima di un selfie o di una tornata elettorale: «la sovranità evocata nella sua radice, infatti, implica una doppia (ri)conquista: l’indipendenza della comunità nazionale e la facoltà di un popolo di forgiare il suo destino» [p. 305].
Una tentazione alla quale, di questi tempi, vale davvero la pena di cedere e che la lettura del libro di Benedetti certamente incoraggia.
Note:
[1] G. Aliberti, «Annales» e Storiografia Italiana: Itinerario problematico di un ricercatore, in «Clio», a. XV, n. 3, del luglio-settembre 1979, p. 396.
[2] P. Simoncelli, Ecco perché gli studi storici stanno morendo: sono pericolosi, in «Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale», a. XX, n. 57, del settembre-dicembre 2017, p. 206.
[3] R. Bonuglia, Se la democrazia diventa “regime” e gli intellettuali vassalli omologati, in «Barbadillo», del 1° febbraio 2020, ora in https://www.barbadillo.it/87646-focus-se-la-democrazia-diventa-regime-e-gli-intellettuali-vassalli-omologati/.
[4] M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Milano, Rizzoli, 2002, pp. 8-9.
[5] G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, in Caratteri gnostici della moderna politica economica e sociale, Roma, Astra, 1980, p. 19.