Nell’ormai lontano 1965 in un volume collettaneo edito a Boston si esponeva un’analisi della società democratica occidentale molto originale (1). Essa veniva considerata come una particolare forma di totalitarismo che – a dispetto delle tecniche sofisticate e dei modi di essere apparentemente tolleranti – si stava sempre più permeando di una cruda volontà di repressione.
Nulla di nuovo a dire il vero poiché, già nel 1952, Jacob Leib Talmon aveva mostrato con quale facilità una costellazione di ideali – per definizione democratici – possa invece trasformarsi in un rigido sistema di coercizione (2).
Entrambi gli approcci si originavano da un quesito certamente originale per quei tempi e volutamente provocatorio: può una società democratica nascondere, sotto la sua maschera, un così atroce inganno? Può – diremo noi oggi –, una democrazia trasformarsi in democratismo tanto da caratterizzare un “regime democratico” degli stessi eccessi insiti in una realtà totalitaria?
La risposta non è certo facile. Certo, attualizzando ai nostri tempi l’approccio metodologico dei volumi citati qualche riflessione merita di essere fatta. Partiremo da un dato inconfutabile: oggi la globalizzazione e il connesso neoliberismo hanno liquidato l’intera cultura di tradizione umanistica.
E’ stata interrotta la traditio, termine che identifica da sempre la trasmissione, il passaggio del testimone da una generazione all’altra: «Non c’è più Olimpia, Atene è stata sostituita da Francoforte» e «il deserto culturale, la socializzazione della cultura, sono funzionali alle necessità d’una tecnica economica distante ormai anni luce dai postulati classici dell’economia politica» (3).
La nostra società, dunque – piuttosto che l’ambito espressivo del libero gioco di interessi e di tensioni –, ci appare come una sorta di firmamento, riflesso di un ordine predisposto, le cui singole stelle e costellazioni rispondono alla forza di una legge ineluttabile, nella quale l’individuo non ha voce.
Gli “strani giorni” – per dirla provocatoriamente con Battiato – che stiamo vivendo rivelano il predominio della concezione politica hegeliana e marxista: entrambe, infatti, avevano in dispregio la realtà concreta dell’individuo tanto da rendere le forme storiche in cui ieri si svelavano, vere e proprie varianti de facto di un’unica sostanza totalitaria, indipendentemente dal tipo di ordinamento che oggi esprimono sia esso “totalitario” o “democratico”.
Era questo, in estrema sintesi, l’assunto centrale delle tematiche care a Eric Voegelin – dimenticato, ma non da tutti, maestro di filosofia e lettore dei “nostri” tempi – che nei suoi scritti spiegò bene quanto «in questa società massificata quel che manca è proprio… la consapevolezza dell’individuo» (4). Un individuo, in altre parole, che pensa di poter aver un ruolo attivo nei processi decisionali ma che, invece, lo è solo in un susseguirsi scenografico di metodi di rappresentazione (in qualunque forma essi si palesino, dalle tradizionali elezioni a quelle virtuali sulle piattaforme pentastellate passando per le primarie amatriciane piddine), previsioni legislative, regolamentazioni amministrative, assistenza e tutela statale.
Non a caso più sono perfetti i meccanismi per il movimento dell’intero quadro istituzionale – oggi resi tali da realtà sovranazionali come l’UE e dal cosiddetto “turbocapitalismo” monolitico – tanto minore risulta la possibilità di una partecipazione effettiva, dal basso, non manipolata, dismessa – con boria da buona parte di sociologi, politologi, economisti e quanti altri allineati e inglobati nella matrix democratista – come proposta anacronistica, se non risibile.
In tal senso la figura dell’intellettuale rappresenta la cartina di tornasole della deriva delle nostre società: l’uomo colto, il sapiente, il filosofo, finisce per essere fagocitato nel complesso organismo di cui si è detto svolgendo, per esso, una funzione tra le tante ben lontana dalla mission platonica di “uscire dalla caverna”. Da ciò, già nel 1977, Norberto Bobbio aveva messo in guardia: ancor prima dell’entrata in scena dei palcoscenici mediatici delle Tv private e del social web egli aveva previsto quanto sarebbe stato inevitabile per l’intellettuale assumere, magari inconsapevolmente, un ruolo funzionale al potere fino a divenirne un efficace strumento di razionalizzazione (5).
La destoricizzazione della cultura e la fine dello Stato nazionale hanno velocizzato e incoraggiato tutto ciò. Ed il risultato è piuttosto paradossale: il “concetto” ha sostituito le cose e i rapporti concreti, la “persona” l’individuo, la “personalità” le sue caratteristiche, lo “Stato” l’equilibrio precario delle forze collettive, la “Chiesa” e la “religione” hanno surrogato ogni interiorità che non si disponga sul piano di una morale convenzionale. Tutto, dunque, «risponde alle esigenze di un ordine prestabilito, che è la sola garanzia di vita societaria» (6).
Il caso italiano fornisce un’irrinunciabile esempio di questo paradosso: oggi è molto più difficile svolgere un ruolo etico positivo rispetto all’Italia tra le due guerre. La storia della censura del Secondo dopoguerra rivela – a chi voglia leggerla senza pregiudizi ideologici né derive revisionistiche – una triste verità: «Togliamoci dalla testa l’idea che, finito il fascismo, finita la guerra, sia finita l’attività censoria di controllo della libertà di espressione» (7).
Anzi, tutt’altro: a differenza di Trotskij a Mosca e degli Strasser a Berlino è stato molto più semplice per Croce avere un ruolo più politico che filosofico durante il Ventennio – pubblicando indisturbato le annate de “La Critica”, stilando “Manifesti” e dirigendo egocentricamente il catalogo delle edizioni Laterza – che per Arrigo Cajumi scrivere su “Il Mondo” un articolo sulle responsabilità di Don Benedetto davanti al fascismo, per Gioacchino Volpe difendersi dall’epurazione antifascista ai Lincei o per Renzo De Felice condurre placidamente i suoi studi su Mussolini qualche anno dopo.
E l’elenco potrebbe continuare rievocando «la costante, aggressiva corrosione dell’idealismo da parte della cultura comunista del dopoguerra da “Rinascita”, a “Società”, al “Contemporaneo”» nonché i «micidiali interventi censori dell’apparato editoriale comunista, fin dalla prima edizione dei “Quaderni” di Gramsci, o alle becere interdizioni democristiane di accesso a “libri proibiti”» (8).
Quale la premessa, la radice di tale paradosso? La risposta è rinvenibile nelle pagine ancora attuali di Adorno e Horkheimer sul potere contemporaneo che si è imposto nel Secondo dopoguerra “senza fretta ma senza tregua” ricorrendo «attraverso i Mass Media a un’azione “preventiva” di condizionamento che abituando l’individuo ad una ricezione passiva e meccanica dei messaggi, gli introgetta un’immagine predeterminata, univoca ed asettica della realtà che “lo persuade” ad adottare un tipo di linguaggio e di comportamento impersonale e stereotipato, con l’effetto finale di inibirgli sia le funzioni immaginative che quelle critico-riflessive» (9).
Una persuasione, quindi, non meno violenta della forza coattiva ma molto più sottile, paralizzante, insidiosa e inattaccabile che fa della democrazia un democratismo il quale trae la sua linfa vitale nel determinismo di derivazione marxista che rigetta, per sua natura, qualsiasi intellettualità o filosofia.
Destrutturata la cultura, insomma, il “marxiano” 2.0 viene usato «indiscriminatamente a fini demagogici e di potere, senza mai contare gran che nella pratica di una decisione politica» trasformando gli epigoni dei censori del Secondo dopoguerra in “gerarchi” del pensiero unico, «mezze-figure, capipopolo senza scrupolo dediti esclusivamente alla soddisfazione di ambizioni insaziabili e al proprio tornaconto personale» (10).
Figure deprecabili, certo, ma che purtroppo confermano, non a caso, l’assunto di Voegelin secondo il quale «ogni società riflette nel suo ordine il tipo di uomo del quale si compone» (11).
Roberto Bonuglia, 1 febbraio 2020
Note
1) R. P. Wolff, Barrington Moore Jr., H. Marcuse, A Critique of pure tolerance, Boston, Beacon Press, 1965.
2) J. L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy, Londra, Secker & Warburg, 1952.
3) P. Simoncelli, intervento al Convegno Oltre Salerno. Benedetto Croce, Ignazio Silone e la loro attualità politica, del 28 settembre 2014, ora in G. Di Leo, Atti del Convegno di Pescasseroli e Pescina, Roma, Aracne, 2015, p. 162.
4) G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, in Caratteri gnostici della moderna politica economica e sociale, Roma, Astra, 1980, p. 19.
5) N. Bobbio, Gli intellettuali ed il potere, in «Mondoperaio», del novembre 1977, pp. 63-72.
6) G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, cit., p. 39.
7) P. Simoncelli, cit., p. 162.
8) Ivi, p. 161.
9) T.W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966.
10) G.F. Lami, La riforma della rivoluzione, cit., p. 16.
11) E. Voegelin, Die Neue Wissenschaft der Politik, Monaco, Anton Pustet, 1959, pp. 93-95.