Polibio, nel XII libro delle sue Storie, afferma che l’indagine storica e storico-politica deve essere fondata su un’analisi diversificata che comprenda, oltre alla raccolta dei materiali e allo studio dei documenti d’archivio, anche – e soprattutto, allorquando trattasi di “storia contemporanea” – l’esame delle testimonianze, l’interrogare le fonti dirette, vale a dire, coloro che hanno presenziato agli eventi. In sostanza, per Polibio la Storia per essere autentica e valida sotto il profilo etico deve imperniarsi su quel principio che modernamente oggi chiamiamo «imparzialità» e che, all’atto pratico, implica l’elaborazione e la stesura di opere storiche condotte con metodo “pragmatico”, vale a dire, scientifico e critico [cfr. POLIBIO, 2021: 81-111]. È superfluo aggiungere come tale principio sia stato e continui a essere, a un tempo, rigorosamente probo e non facilmente perseguibile, almeno in toto, dagli storici d’ogni epoca e luogo.
In Portogallo, è stato di certo Fernão Lopes (1390 ca.–1460 ca.) – indiscutibilmente il creatore della storiografia nazionale portoghese – colui che più d’ogni altro si è sforzato di mettere in pratica gli insegnamenti del grande storico greco.
Nel Prólogo alla prima parte della Crónica de D. João I, Fernão Lopes ha modo di informarci riguardo alla sua concezione della Storia e al programma seguito nell’elaborare le sue cronache. Tale programma può essere riassunto in sei punti:
- il fine della Storia risiede nell’accertamento della verità dei fatti del passato, il che presuppone non solo la critica e l’esame delle fonti e delle testimonianze dirette ma anche e soprattutto il ricorso al documento scritto;
- la Storia non deve essere destinata a questo o a quello, ma al popolo in generale, al quale lo storico si preoccupa di chiarirla con una relazione veridica dei fatti (ricordo che per Polibio lo storico doveva muovere da un intento pratico e didascalico insieme, ponendo la sua opera al servizio non solo di statisti e condottieri, ma anche degli uomini comuni);
- nella sua missione austera, quasi sovrumana, lo storico non conosce patria;
- deve, in uno sforzo supremo, mettere da parte tutti gli affetti;
- deve evitare il «favoreggiamento», ossia, quella parzialità naturale a favore dei conterranei che mina alla radice, stravolgendolo, ogni suo giudizio;
- il suo stile deve adeguarsi alla sincerità di tali propositi, cosicché occorre che esso sia quello più conveniente alla pura verità, pertanto semplice, scorrevole, diretto, senza quella «impazienza e novità terminologica» con cui spesso gli storici infettano il linguaggio e, quindi, pregiudicano la stessa verità (ricordo come sempre Polibio rimproverasse agli storici ellenistici suoi predecessori, in primis a Timeo, di tradire la funzione autentica della storiografia con le loro preoccupazioni di natura letteraria) [cfr. LOPES, 1980].
A questo punto c’è da chiedersi: sarebbe riuscito Fernão Lopes, tramite l’intera sua opera, a mantenere inalterati tutti questi suoi propositi? Indubbiamente no! D’altronde sarebbe stato pretendere troppo per quell’epoca, la cui passione e il cui ardore nazionale sono così ben rappresentati dal grande cronista medievale portoghese. Ad ogni modo, è certo che si avverte nelle sue cronache quantomeno il proposito sincero di riferire la verità e, quindi, di restare fedele il più possibile alla linea di condotta che si era imposto nel Prólogo alla Crónica de D. João I.
Tale proposito già non si riscontra nei cronisti che immediatamente gli succedettero. Questo perché, a partire pressappoco dalla seconda metà del XV secolo (ricordo che fu nel 1454 che Fernão Lopes, oramai vecchio e stanco, fu sostituito da Gomes Eanes de Zurara [1420 ca.–1474] nel suo incarico di conservatore dell’Archivio di Stato, la cosiddetta Torre do Tombo, e di cronista ufficiale di corte), lo storico sarebbe diventato soprattutto un cortigiano, quasi del tutto privo in pratica d’indipendenza materiale e morale, con il sovrano che, a poco a poco, avrebbe lasciato di essere il re popolare, per diventare una sorta di dittatore, cui tutto si doveva. In tali condizioni, ben si comprende come l’oggetto della Storia non potesse più essere la semplice e totale verità, ma solo la verità che aggradasse al re e ai nobili di corte, che ridondasse a loro completo onore e prestigio.
A questo proposito, il critico Manuel Rodrigues Lapa, nelle sue Lições de Literatura Portuguesa, scrive:
«La “Crónica da Tomada de Ceuta” [conclusa da Zurara nel marzo del 1450, sotto il regno di Alfonso V] di certo fu ben accolta nei circoli cortigiani: trattava con onore i grandi e stigmatizzava i piccoli per qualunque brutta azione avessero compiuto nel corso dell’assedio e della presa della città. Il non più plebeo [ossia, lo stesso Zurara] adulava ora i potenti, dimentico della sua precedente condizione. Dopo questa prima prova piovvero su Zurara benefici materiali e onoranze» [LAPA, 1977: 417].
I maggiori benefici, tuttavia, Gomes Eanes de Zurara li ebbe a partire dal 1453, anno in cui terminò la sua Crónica do Descobrimento e Conquista de Guiné, con la quale – merito che è doveroso riconoscergli – fu inaugurata, di fatto, l’importante e voluminosissima storiografia sulle scoperte e le conquiste portoghesi [cfr. ZURARA, 1973].
Quella che chiamiamo propriamente «storiografia d’oltremare portoghese» appare soltanto nella seconda metà del XVI secolo. I suoi maggiori rappresentanti sono Fernão Lopes de Castanheda (1500 ca.–1559), Gaspar Correia (1496 ca.–1563), João de Barros (1496–1570) e Diogo do Couto (1542–1616).
La storia del Portogallo era considerata ora, soprattutto, come il registro della sua espansione oltreoceanica. Proprio per questo non c’è da meravigliarsi del fatto che gli storici registrassero nelle loro opere quasi esclusivamente gli avvenimenti e i successi riportati dai loro connazionali fuori dal Portogallo, tanto in Asia come in Africa e in Brasile, interessandosi poco o per nulla alla vita civile, politica ed economica interna. Ciò con rarissime eccezioni. È il caso, ad esempio, di Damião de Góis (1502–1574), il quale, pur dando grande importanza agli eventi oltreoceanici, rimase fondamentalmente fedele, come d’altronde si evince già dai titoli delle sue due opere storiche (Crónica do príncipe D. João e Crónica do rei D. Manuel), alla cronistoria tradizionale, ossia, quell’interessata agli avvenimenti nazionali interni, con al centro la figura del sovrano; e tuttavia avvenimenti integrati, quanto specificatamente alle cronache di Damião de Góis, in un contesto europeo, il che avrebbe dato alla storiografia di quest’insigne umanista un’impronta culturale e una prospettiva critica interamente nuove per il Portogallo epocale.
Orbene, questa grande attenzione, imposta dalle circostanze, che è data agli avvenimenti occorsi nei territori d’oltremare portoghesi, oltre a riflettere l’entusiasmo patriottico, farà sì che nella maggior parte delle opere nazionali del tempo – e non solo storiografiche, basti pensare, ad esempio, a Os Lusíadas di Luís de Camões (1524 ca.–1580) – sia immancabilmente presente lo spirito epico delle navigazioni e delle conquiste realizzate dai Portoghesi, soprattutto in Oriente; navigazioni e conquiste il cui altissimo valore meriterà al Portogallo la fama, l’ammirazione e il rispetto di tutta l’Europa del tempo.
Questo stato di cose ci porta, tuttavia, a prendere in considerazione un problema importante: fino a che punto tale fervore nazionalista è compatibile con la verità della Storia? Di certo, tale interrogativo molte volte sarà sorto anche nella coscienza degli storici di allora. Tutti, è beninteso, sulle orme di Fernão Lopes, proclamano che il principale fine della Storia è la verità. Resta da stabilire, però, se tutti si sono mantenuti fedeli a tale precetto e se l’epoca era propizia all’integrità morale dello storico.
È qui che la storiografia portoghese del ’500 ci rivela uno dei suoi aspetti più peculiari e drammatici a un tempo.
L’epoca non era certamente favorevole a che si potesse dichiarare senza rischi l’intera verità su fatti e persone. In quest’atmosfera piena di timori non c’è quindi da stupirsi se le opere degli storici spesso fossero soggette a censura, finendo a volte per essere mutilate quando non proprio impedite di circolare o soppresse.
Il caso più emblematico è certamente rappresentato dalle vicissitudini patite dalla História do Descobrimento e Conquista da Índia pelos Portugueses di Fernão Lopes de Castanheda [cfr. CASTANHEDA, 1979: 2 voll.]. Il primo dei dieci volumi di quest’opera, dato alle stampe nel marzo del 1551, suscitò d’immediato, per la sua ricchezza descrittiva in termini geografici ed etnologici dei territori orientali, grande interesse anche fuori del Portogallo, tanto da meritarsi, a distanza di pochissimi anni dalla sua pubblicazione, due traduzioni, una in francese, nel 1553, e una in castigliano, nel 1554 (più tardi, ce ne sarà, tra le altre, anche una italiana, a cura di Giordano Ziletti, pubblicata a Venezia nel 1578). Questo primo volume, tuttavia, a seguito di forti pressioni da parte di persone nobili e influenti, fu ritirato dalla circolazione e ristampato in una nuova edizione, modificata dallo stesso Autore, nel luglio del 1554, quando già erano stati pubblicati i libri dal secondo al settimo. L’ottavo libro fu stampato postumo, nel 1561, a due anni dalla morte di Castanheda. Gli ultimi due, al contrario, non avrebbero mai visto la luce (sappiamo, da alcune testimonianze, che esistevano i manoscritti originali di entrambi, purtroppo andati perduti; un frammento del IX libro – trentuno capitoli per l’esattezza, ritrovati negli archivi portoghesi della Compagnia di Gesù e che erano stati trascritti alla fine del XVI secolo dal gesuita italiano Giovanni Pietro Maffei – sarebbe stato pubblicato nel 1929). Questa decisione di non dare alle stampe i libri IX e X della História di Castanheda maturò all’interno della corte portoghese. Più precisamente, l’ordine partì dalla regina Caterina, durante la sua reggenza (1557–1562) dopo la morte di Giovanni III e prima che il nipote Sebastiano giungesse alla maggiore età. A quanto sembra, il motivo principale di tale decisione sarebbe stato quello di dare protezione a quei nobili portoghesi che si erano in qualche modo disonorati nel corso di alcune azioni belliche in Oriente (è il caso, ad esempio, del secondo assedio di Diu, nel 1546) e i cui nomi erano per l’appunto riportati nei due volumi manoscritti.
Anche il fin troppo cauto e misurato João de Barros, di certo il più favorito tra gli storiografi portoghesi del ‘500, poiché amico personale del sovrano Giovanni III, ha modo di riferire nei prologhi alle sue quattro Décadas da Ásia, in special modo nel prologo alla quarta decade, quanti dissapori ebbe a soffrire per non aver accontentato tutti, compresi i «parenti» e gli «amici» [cfr. BARROS, 1973: 8 voll.].
D’altronde, la Storia, com’era allora concepita, nel riferire sugli avvenimenti del passato, faceva sì che i discendenti di coloro i quali si erano distinti con atti onorevoli o perfino eroici entrassero nelle grazie del sovrano. Tale concetto, in base al quale i vivi si avvantaggiavano materialmente della gloria dei morti, è una delle prerogative dell’epoca – prerogativa, peraltro, che ben traspare tra le righe del Prólogo al libro III della História di Lopes de Castanheda [cfr. CASTANHEDA, 1979: I, 493-495].
Con tali presupposti ben si comprendono i rischi cui andava incontro lo storico allorquando decideva di dichiarare alcune verità più o meno scomode: coloro che vedevano i loro antenati coperti di gloria si sentivano lusingati e beneficiati dal favore del re; ma coloro che vedevano quelli della loro famiglia dimenticati o, per rispetto della verità, segnalati con note d’infamia, rimanevano colpiti nell’onore e nel profitto. Erano proprio questi ultimi i grandi nemici degli storici, quelli che volevano tappare loro la bocca.
Fermo restando che tutti gli storiografi portoghesi del ‘500 sono accomunati dall’attenzione quasi esclusiva data agli avvenimenti d’oltremare (con l’unica eccezione, come già riferito, di Damião de Góis, che, appunto per questo, non prenderò in considerazione nel prosieguo di questo mio articolo) e, per diretta conseguenza, dall’esaltazione dell’espansionismo portoghese, soprattutto in Oriente, è pur vero che questi stessi storiografi si differenziano molto, e non solo dal punto di vista culturale, l’uno dall’altro.
Iniziamo da Fernão Lopes de Castanheda, e per il semplice motivo che fu il primo a pubblicare le «façanhas», ossia, le gesta portoghesi in Asia, come lui stesso riferisce con un pizzico d’orgoglio nel Prólogo al terzo libro della sua História, ponendo l’accento, peraltro, anche sul fatto che il primo libro, pubblicato – come già riferito – in Portogallo nel 1551, stava per uscire in traduzione francese:
«[…] molto ho guadagnato nell’essere il primo portoghese che le abbia resuscitate nella nostra lingua, poiché morte da cinquant’anni, e non solo in Portogallo, ma anche in altri regni, dove erano molto desiderosi di conoscerle. Lo prova il fatto che si sta ora stampando a Parigi, in lingua francese, il primo libro di questa storia […]» [IBID.: 493-494].
Castanheda fa parte di quella categoria di storici che percorsero in Oriente i luoghi delle azioni belliche, servendosi delle testimonianze rilasciategli da nobili e ufficiali che vissero in prima persona gli avvenimenti, senza tuttavia trascurare la consultazione delle fonti scritte.
Partì per l’India nel 1528, imbarcato sull’armata del governatore Nuno da Cunha, insieme al padre Lopo Fernandes, nominato uditore di Goa. Vi rimase ininterrottamente per dieci anni, fino al 1538.
Sempre nel Prólogo al terzo libro della sua História, fondamentale per cogliere quale fosse il suo concetto di Storia, Castanheda insiste su un abbinamento che gli umanisti avevano ripreso dall’antichità classica (si pensi, ad esempio, a un Omero, a un Tito Livio), quello delle Armi con le Lettere, vale a dire: l’eroismo risulterebbe ignorato e quindi inutile se gli storici e i poeti non lo celebrassero.
Lamentandosi di alcuni connazionali che avevano parlato della presenza di difetti e imprecisioni nella sua opera, senza tuttavia indicare quali fossero, la qual cosa gli avrebbe dato quantomeno la possibilità di difendersi o di correggerli, Castanheda rimarca la sua grande preoccupazione per la verità storica:
«E se io ho impiegato venti anni nello scrivere questa storia, è stato perché la facessi come doveva essere, principalmente nella verità. E di questa, attesto a Vostra Altezza, non sono venuto a conoscenza a casa mia, né ho fatto sì che mi fosse trasmessa per iscritto da coloro che la conoscevano […]. Al contrario, sono andato a conoscerla in India, affrontando nel corso del viaggio impetuose e terribili tempeste, a seguito delle quali ho visto da presso la morte, senza quasi speranza di vita, soffrendo grandemente la fame e ancor più la sete. E lì, affrontando mille pericoli, mi sono trovato in mezzo a spaventosi e innumerevoli combattimenti con bombarde e fucili. E partecipandovi ho avuto modo di conoscere la verità su molte cose che avrei messo per iscritto, alcune personalmente viste, altre solo udite. Non da una persona qualunque, ma da capitani e nobili, persone di molto credito che le hanno vissute in prima persona; e così da loro ho avuto direttamente il massimo delle informazioni, in quei dettagli che potevano riferirmi» [IBID.: 494].
Da un punto di vista storico, l’opera di Castanheda, proprio a seguito di un tasso di sincerità e obiettività, nonché di completezza, di molto superiore alla media (ampiamente riconosciutole, peraltro, anche dagli storici moderni), è da ritenersi forse la più affidabile tra tutte quelle dello stesso periodo che riguardano l’epoca espansionistica portoghese.
È sull’aspetto strettamente letterario che alla sua História potrebbe essere mosso qualche appunto – come realmente le è stato mosso, e non solo da critici contemporanei, visto che già nel 1553 l’umanista francese Nicolau Grouchy, traduttore del primo libro, riferendosi appunto allo stile di Castanheda, ebbe modo di parlare dell’assenza di quell’eleganza propria degli autori che coltivano le humanae litterae. In verità, dando maggiore attenzione alla narrazione degli avvenimenti riportati nella loro nuda e cruda oggettività e, quindi, non di rado ricorrendo al dettaglio apparentemente privo di significato, Castanheda poco si preoccupa della resa letteraria e stilistica; da qui la frase prolissa e una costruzione ancora tipicamente medievale, in cui la coordinazione sintattica predomina sulla subordinazione.
(continua)
Riferimenti bibliografici
– ALBUQUERQUE, Luís de (direcção de), 1994. Dicionário de História dos Descobrimentos Portugueses. Círculo de Leitores, Lisboa: 2 voll.
– ALBUQUERQUE, Luís de, s. d. (3ª ed. revista). Introdução à História dos Descobrimentos Portugueses. Publicações Europa-América, Lisboa.
– BARROS, João de, 1973. Da Asia de João de Barros. Dos feitos, que os Portuguezes fizeram no descubrimento, e conquista dos mares, e terras do Oriente. In Da Asia de João de Barros e de Diogo de Couto. Nova edição […]. [Copia fotostatica: Lisboa. Na Regia Officina Typografica. Anno mdcclxxvii-xxxiii, mdcclxxxvi e mdcclxxxviii]. Edição da Livraria Sam Carlos, Lisboa. 24 voll.: 8 voll. (dal 1° all’8°): 1° volume ([…] Decada Primeira. Parte Primeira. // […] Prologo de João de Barros em as primeiras quatro decadas da sua Asia […], s. pp. [12 pp.]); 3° volume ([…] Decada Segunda. Parte Primeira. // Decada Segunda. Prologo, s. pp. [5 pp.]); 5° volume ([…] Decada Terceira. Parte Primeira. // Decada Terceira. Prologo, s. pp. [22 pp.]); 7° volume ([…] Decada Quarta. Parte primeira. // Decada Quarta. Apologia de João de Barros em lugar de Prologo, s. pp. [29 pp.]).
– CASTANHEDA, Fernão Lopes de, 1979. História do Descobrimento e Conquista da Índia pelos Portugueses. Introdução e revisão de M. Lopes de Almeida. Lello & Irmão – Editores, Porto. 2 voll.: I (Prólogo no terceiro livro do descobrimento […], pp. 493-495).
– CORREIA, Gaspar, 1975. Lendas da Índia. Introdução e revisão de M. Lopes de Almeida. Lello & Irmão – Editores, Porto. 4 voll.: I (Aos Senhores Leitores, pp. 1-3).
– COUTO, Diego de, 1973. Da Asia de Diogo de Couto. Dos feitos, que os Portuguezes fizeram na conquista, e descubrimento das terras, e mares do Oriente. In Da Asia de João de Barros e de Diogo de Couto. Nova edição […]. [Copia fotostatica: Lisboa. Na Regia Officina Typografica. Anno mdcclxxvii-xxxiii, mdcclxxxvi e mdcclxxxviii]. Edição da Livraria Sam Carlos, Lisboa. 24 voll.: 15 voll. (dal 10° al 24°).
– LAPA, Manuel Rodrigues, 1977. Fernão Lopes e os Cronistas. In Idem, Lições de Literatura Portuguesa. Época medieval. 9.ª, revista e acrescentada. Coimbra Editora, Limitada, Coimbra: 373-432.
– LOPES, Fernão, 1980. Crónica del-rei Dom Joam da boa memória. 1.ª Parte. Prólogo. In Crónica de D. João I de Fernão Lopes. Apresentação crítica, selecção, notas e sugestões para análise literária de Teresa Amado. Seara Nova, Lisboa: 75-79.
– MARQUES, J. Martins da Silva, 1944-1971. Descobrimentos Portugueses. I.C.A.L.P., Lisboa: 3 voll.
– MORAIS, Carlos Alexandre de, 1997 (2.ª edição, revista e aumentada). Cronologia da Índia Portuguesa 1498 – 1962. Editorial Estampa, Lisboa.
– POLIBIO, 2021 (5ª ed.). Storie. Volume Quinto (Libri XII-XVIII). A cura di Domenico Musti. Traduzione di Manuela Mari. Note di John Thornton. Testo greco a fronte. BUR, Milano.
– ZURARA, Gomes Eanes da, 1973. Crónica de Guiné (Segundo o ms. de Paris. Modernizada. Introdução, novas anotações e glossário de José de Bragança). Livraria Civilização – Editora, Porto.
[Tutte le traduzioni dei testi dal portoghese sono a mia cura]