Nel novembre 1969 misi piede, per la prima volta in vita mia, a Palazzo Nuovo, l’appena inaugurato ‘mostro urbano progettato male’ di via Sant’Ottavio 20 e via Verdi (già della Zecca), all’ombra della Mole Antonelliana, a due passi dai portici di via Po, nel centro storico subalpino. Sorto tra il 1961 ed il ’66 sull’area di vecchi edifici del demanio militare bombardati durante la guerra, accanto a seicentesche, fatiscenti strutture edilizie. Sede delle Facoltà Umanistiche del tempo, Giurisprudenza, Lettere e Filosofia, Magistero, tra le quali l’ultima nata, l’altrettanto nuova, per Torino, Scienze Politiche. La più antica istituzione per lo studio delle scienze politiche in Italia fu l'”Istituto Cesare Alfieri” di Firenze, fondato nel 1875 e divenuto Facoltà nel 1938.
Nacque il Palazzo, come la nuova Facoltà, da ‘magnanimi lombi’ accademici e politici. Nel 1958 l’Università degli Studi di Torino bandisce un concorso per la progettazione della nuova sede delle Facoltà Umanistiche. Si aggiudicano la gara, ex aequo, il post-razionalista Gino Levi Montalcini ed il gruppo di Felice Bardelli, Sergio Hutter e Domenico Morelli. Fratello del Nobel Rita, Gino nasce a Milano nel 1902, si laurea nel 1925 presso la R. Scuola di Ingegneria di Torino e frequenta, tra gli anni Venti e Trenta, una cerchia di intellettuali ed artisti tra i quali Giuseppe Pagano, Edoardo Persico, Felice Casorati, Gigi Chessa, Enrico Paulucci, Domenico Soldiero Morelli, Umberto Cuzzi, Carlo Mollino, sensibili ai linguaggi innovatori. L’incontro con Giuseppe Pagano segna l’inizio della sua carriera di architetto, con progetti che lo collocano tra i più rappresentativi esponenti del movimento razionalista italiano. Autore, tra l’altro, del Monumento ai Martiri Fascisti Dresda e Bazzani a Torino (1933), poi distrutto, e del Progetto per il Palazzo del Littorio in via dell’Impero a Roma, nel 1934, è colpito dalle leggi razziali del ’38. Gino Levi Montalcini collabora dopo il ’45 con l’Associazione per l’Architettura Organica di Bruno Zevi e si dedica soprattutto alla docenza. (https://it.wikipedia.org/wiki/Gino_Levi-Montalcini).
I citati architetti torinesi sviluppano poi insieme il piano esecutivo, con i volumi su fasce parallele: il corpo lineare alto 28 m, che ospita aule al primo piano, uffici ed istituti nei quattro livelli soprastanti, un blocco destinato alle aule di media grandezza, collegato a quello principale tramite corpi vetrati, e la serie di grandi aule sul corpo principale. Una struttura tutta in acciaio per un edificio fuori scala rispetto alla sedimentazione edilizia circostante, un gratuito schiaffo al rispetto minimo della contiguità architettonica. Salutato da pochi per il coraggioso (in realtà delittuoso) inserimento in un tessuto urbano storico, ricorrendo all’utilizzo dell’acciaio, con i linguaggi delle megastrutture, una sorta di antesignano Beauburg di provincia, corriente High-Tech, con vistose strutture metalliche esteriori… delirio di lattonieri ebbri di ‘volontà di potenza! Criticato da molti, fin da subito, non solo per l’insopportabile impatto ambientale, ma per l’abbondanza di spazi direttamente non fruibili, o per l’assurda esiguità di molti altri. Già insufficiente per accogliere gli studenti dopo la liberalizzazione degli accessi di quello stesso 1969, Palazzo Nuovo rappresenta, in sintesi, l’edificio pubblico degli anni dell’energia a basso costo, caratterizzato da un involucro a limitate prestazioni, una bullesca concezione neo-futurista ‘usa e getta’ che, in realtà, si rivelerà uno spreco continuo, e senza fine, di risorse per il suo mantenimento e successiva fruizione.
Nel corso degli anni sono stati, infatti, apportati adeguamenti funzionali, ristrutturazioni, bonifiche. Un edificio, Palazzo Nuovo, simbolo della vita accademica e studentesca della città, assurto, per taluni, a simbolo anche di riqualificazione energetica, ecologica (c’era amianto da rimuovere), funzionale ed architettonico. Negli anni 2011-’12 le facciate laterali dell’edificio sono state interessate da una complicata opera di pittura di murales molto colorati per spezzarne l’uniformità cromatica. Tanto complessa quanto di effimero e discutibile gusto. E ben presto cancellata dal restyling per ‘armonizzare’ l’edificio col Campus Luigi Einaudi del grande Foster!
L’edificio costruito su un’ area industriale dismessa, progettato dallo studio del famoso architetto di Manchester, Norman Foster, fu inaugurato nel 2012. È oggi sede delle Scuole di Scienze giuridiche, politiche ed economico-sociali con i Dipartimenti di Giurisprudenza; Culture, Politica e Società (praticamente l’ anteriore Facoltà di Scienze Politiche); Economia e Statistica.
Per secoli modesto ateneo, fondato nel 1404 – il 4 settembre 1506 ci si laureò in Teologia Erasmo da Rotterdam – nell’800 l’ Università di Torino crebbe molto, fu nido dei Moti del 1821 e poi del movimento risorgimentale, fino a convertirsi in una delle più prestigiose, sia nel campo scientifico, sia in quello umanistico; ed uno dei punti di riferimento del positivismo italiano, teorizzato da Auguste Comte, con Cesare Lombroso, Mario Carrara, Carlo Forlanini, Arturo Graf.
Nelle sue aule si laurearono, tra gli altri, Antonio Gramsci, Umberto Eco, Gianni Agnelli, Vittorio Valletta, i Presidenti Luigi Einaudi e Giuseppe Saragat, Primo Levi, i Nobel Salvatore Luria, Renato Dulbecco, Rita Levi Montalcini. Per non dire del Politecnico, dove studiarono Dante Giacosa e molti progettisti dell’automobile. Nel 1969, in piena contestazione studentesca, a Torino c’è ‘l’autunno caldo’, e Palazzo Nuovo diventa sede delle deiezioni mefitiche del ’68, con scontri tra studenti di diverse tendenze politiche e con la polizia, di tumultuose assemblee studentesche, presìdi e bivacchi intimidatori verso docenti, in maggioranza cacasotto e calabrache, abbandonati a sé stessi, disposti a subire mille umiliazioni da parte, talora, dei propri figli, giacchè i manipoli del Movimento Studentesco in eskimo erano composti da figli di professori (esempio Luigi Bobbio, leader del MS, fondatore ed esponente di Lotta Continua, poi politologo e Ordinario a Scenze Politiche di Torino), professionisti ed alto borghesi, non certo da proletari. E mille scempiaggini ripetute ossessivamente da gruppuscoli dell’ultrasinistra e farneticazioni sul nulla, remoti maoismi orecchiati, rimasticature di demenziali dogmi importati dai ‘contestatori globali’ di Francia e Germania, occupazioni notturne del Palazzo, connotate da aspirazioni alla libertà sessuale più che ribellistico-rivoluzionarie (etero, partorita dal “proibito proibire” e dalla pillola anticoncezionale), che si protrarranno, tra acuti e tenui, per circa un decennio.
Della liberalizzazione degli accessi, Scienze Politiche ne è la prima vittima. Per anni diventa il rifugio di migliaia di studenti lavoratori, anzi, di lavoratori studenti, quarantenni, o magari cinquantenni, paciosi padri di famiglia che inseguono il sogno della laurea e del ‘dottore’, in una sorta di riscatto esistenziale. La Facoltà tira a campare con poche aule, fa lezione nei cinema per un migliaio di studenti, tra infinite difficoltà. Nell’Università di Torino, dall’anno accademico 1969-70, come accennato, è istituita la nuova Facoltà di Scienze Politiche, già corso di laurea nell’ambito di Giurisprudenza. Nacque da Legge, che aveva buoni, talora ottimi docenti (Elia, Conso, Cottino, Allara, Fedele, Silvio Romano, Grosso, Viora tra gli altri), ma ormai alquanto sclerotica. Cinque furono i fondatori o, comunque, i primi membri del Consiglio della nuova Facoltà: Alessandro Passerin d’Entrèves (il primo preside), il nipote Ettore Passerin d’Entrèves, Luigi Firpo, Siro Lombardini e Filippo Barbano. Norberto Bobbio arrivò più tardi da Giurisprudenza, così come gli economisti Claudio Napoleoni e Terenzio Cozzi.
Il ‘padre spirituale’ della nuova creatura accademica era stato, in fondo, Gioele Solari (1872-1952), filosofo del diritto, accademico dei Lincei, che per tutta la vita si dedicò esclusivamente all’insegnamento universitario. Le cattedre da lui ricoperte erano state nelle Università di Messina, di Cagliari e di Torino (dal 1918 al 1948). Un “Maestro dei maestri” che ebbe per allievi, e con il quale quasi tutti si laurearono, Piero Gobetti, Alessandro ed Ettore Passerin d’Entrèves, Norberto Bobbio, Luigi Firpo, Filippo Barbano, Renato Treves, Uberto Scarpelli, Luigi Pareyson, Giorgio Colli, Bruno Leoni, Cesare Goretti, Mario Einaudi (il fratello Giulio, il grande editore, bizzoso e geniale, non si laureerà mai).
Nel ’69 Scienze Politiche nacque grazie all’intesa ‘laica-illuminista-azionista’di Bobbio e di Firpo – in realtà, quest’ultimo post fascista, secondo La cultura a Torino tra le due guerre, Torino, Einaudi, 2000, di Angelo D’Orsi, dato il fervoroso attivismo per il regime e capo redattore della rivista del GUF, Il Lambello, almeno sino agli anni ’40 – con ‘baroni’ orientati verso il PSI o i partiti laici minori, ancora reticenti ad un impegno esplicito ed esclusivo col PCI (a quei tempi, tra l’altro, il visto per gli USA non era concesso agli iscritti al PCI) con i due cattolici liberali Passerin, Lombardini e Barbano. Da questi filoni (allievi, assistenti) sono poi germinati vari docenti PCI-postcomunisti-marxisti che hanno sostanzialmente assunto il controllo della Facoltà nelle generazioni successive. A parte Lombardini, esponente democristiano, gli altri quattro non rappresentavano un partito, almeno nel 1969 – negli anni ’70 sarà poi diverso, quando la politicizzazione partitocratica si affermerà – ma una tendenza, un’identità esistenziale (pesavano ancora, in vari modi, le eredità dell’epoca littoria, delle leggi razziali, della guerra civile) e culturale, più che politica, naturalmente tinte di progressismo per quieto vivere, dati i tempi, in quanto fino all’assassinio Moro (1978) lo Stato brillerà per assenza e cedimenti alla demagogia.
Alessandro Passerin era stato Prefetto di Aosta nel ’45, designato dal CLN, poi con lo storico Federico Chabod uno dei redattori dello Statuto di Autonomia della Valle d’ Aosta, per scongiurare gli appetiti gollisti di annessione. De 1945 al ’56 egli era stato Ordinario ad Oxford (Serena Professorship of Italian). Egli aspirava ad una facoltà sul modello inglese, che volle introdurre nei rapporti con i docenti e gli studenti. Come il nipote, il conte Ettore, apparteneva alla famiglia più illustre della Valle d’Aosta, con tradizione, possedimenti e conoscenze altolocate. Bobbio e Lombardini già gestivano, dal canto loro, un potere accademico ampio e ramificato. In altre Facoltà la professione poteva fruttare talora buoni onorari, ma a Scienze Politiche non esistevano quasi competenze da poter offrire sul mercato extra-accademico. Barbano era un colto sociologo orientato a sinistra, ma senza essere la voce del Partito Comunista o di movimenti marxisti. Esisteva, a Torino come altrove, prevalentemente la collocazione in un’area, non l’appartenenza organica ad una formazione politica. I contrasti erano peraltro accesi, come quando, nel 1961, Franco Venturi e Giorgio Falco bloccarono l’approdo di Ettore Passerin a Lettere, alla morte di Walter Maturi, preferendogli Aldo Garosci, cognato di Falco.
Il potere era dato, allora, dalla presenza (o controllo) di istituzioni culturali importanti (la Fondazione Einaudi e l’Accademia delle Scienze, in primis) e di riviste specializzate. A ciò, nel caso di Luigi Firpo, dotato di una forte fibra di lavoratore, non inferiore alle sue ambizioni, si sommava un’ intensa attività pubblicistica su La Stampa degli Agnelli, la direzione dell’Editoriale UTET, una rete ampia di utili conoscenze ed influenze che includeva l’essere lui campione del mondo di Bridge, autore di testi sull’argomento e Presidente della FIGB nel periodo 1970-1978. Quando si darà apertamente alla politica, Firpo sarà Consigliere d’Amministrazione RAI (quota Partito Repubblicano), ed infine, dopo il fallimento alle Elezioni Politiche del 1979, Deputato dello stesso PRI dall’87. A partire dagli anni ’80 s’intensificano lucrose collaborazioni di alcuni docenti con Università straniere. Ma, nelle decadi successive, sopravverranno la crisi della Fiat, quella di Torino come grande città industriale, la faticosa ricerca di una nuova dimensione, con un riverbero che interesserà le strutture accademiche, anche se non del tutto negativamente…
Scriverà su Repubblica, nel 2004, Marco Trabucco, in modo un po’ trionfalistico, non fantasioso:
“La facoltà degli Ufficiali, con la laurea in Scienze Strategiche, e quella dei futuri Ambasciatori, con quella in Scienze Internazionali e Diplomatiche. Ha una delle scuole politologiche più prestigiose d’Italia, è forte in sociologia, come nelle scienze statistiche, e organizza corsi di perfezionamento in ‘Peacekeeping e interventi umanitari’ o in ‘Management delle organizzazioni non profit’. Quella della facoltà di Scienze Politiche di Torino è un po’ la storia del brutto anatroccolo che diventa cigno. La rivincita di chi, per anni considerato l’esempio dell’università di massa, dell’ateneo parcheggio, tanti iscritti e pochi laureati, fucina di disoccupati, si tira su le maniche, inventa nuovi indirizzi, cambia la didattica, stringe rapporti internazionali di alto livello (con Princeton, ad esempio). Alla fine degli anni ’80 inizia il cambiamento. Lento, ma radicale. Da sempre è tra le prime in Italia per gli studi politici; Bobbio ha lasciato una grande scuola, allievi come Michelangelo Bovero, come Gian Mario Bravo, Angelo D’Orsi, Gian Enrico Rusconi. Ma la filosofia politica non è sufficiente ai neolaureati per trovare un lavoro. E allora si inizia a sviluppare l’altra parte, statistica e matematica. ‘Oggi – spiega Montinaro, docente di statistica – i nostri laureati hanno probabilità pari, se non superiori, di trovare lavoro rispetto a quelli di Economia. Il 50 per cento è occupato dopo sei mesi e il 75 per cento dopo un anno. Un tempo banche e aziende non erano interessate ai profili che noi producevamo. Adesso accade il contrario, perché alla buona preparazione matematica ed economica noi aggiungiamo quel di più, le capacità critiche che vengono dai corsi di filosofia politica, di storia, di sociologia’. E il rinnovamento non si è fermato lì. Da tre anni è nato il nuovo corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche, a numero chiuso (180 posti l’anno), tra i più ambiti, diretto da un altro allievo di Bobbio, Luigi Bonanate. Poi quello interfacoltà in Scienze Strategiche, in collaborazione con la Scuola d’Applicazione di Torino per gli Ufficiali. I corsi in servizio sociale (che, come Statistica, da ottobre darà il via ai corsi triennali per la laurea di primo livello,il diploma per consulenti del lavoro”. (Da https: //www.repubblica.it/misc/guida/politiche/politiche.html).
Poi vennero altre riforme decise da Roma, più o meno felici, fino alla soppressione delle Facoltà. Nel lontano 1969 io cominciai ad assistere alle lezioni di Alessandro Passerin di Filosofia Politica, a quelle di Firpo di Storia delle Dottrine Politiche, su Machiavelli, di Ettore Passerin di Storia Moderna, sulla Germania da Bismarck a Weimar. Diversi tra loro, ma tutti formidabili docenti, assai colti, preparati, in grado di coinvolgere, trasmettere emozioni, non fredde nozioni.
Fino ad allora, ed a parte il pregevole manuale scolastico di Giorgio Spini in 3 volumi, Disegno Storico della Civiltà italiana, la mia passione giovanile per la Storia si era nutrita della lettura della Storia del Terzo Reich di William L. Shirer, traduzione pubblicata da Einaudi nel 1963; la Storia di Torino di Francesco Cognasso, Martello Editore; il I volume di una vecchia edizione einaudiana di Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II di Fernand Braudel; Sei lezioni sulla storia di Edward H. Carr, un succoso libricino della Einaudi pieno di suggestioni; la lettura di ampi brani della Storia del Mondo Moderno della Cambridge University Press, traduzione italiana di Garzanti, 1967, in ben 12 volumi dalla copertina blu. Sempre mi ero immaginato come storico o scrittore, non chirurgo, oceanografo, astronauta o pompiere!
La Storia, sia quella delle ‘idee’, sia quella degli ‘avvenimenti’, poteva allora contare, a Torino come in altri atenei, su grandi nomi, su veri maestri. Poi, nei 50 anni successivi, poco alla volta, le facoltà s’inflazionarono di fumosi sociologi, di politologi astrusi, e fu come la fine degli studi storico-politici. Come ben scrisse Aldo A. Mola in Il Filo della Storia, nel 2016:
“La storia è disciplina severa. Scomoda. Lo è sempre stata. Perciò tanti storici di prima grandezza vissero o finirono esuli in patria. Bastino, per la prima metà del Novecento, Benedetto Croce, inviso a Togliatti come lo era stato a Mussolini e, s’intende, ai clericali, solitamente più bigotti dei preti; e Gioacchino Volpe, autore de L’Italia in cammino: opera di speranza per l’ ‘itala gente da le molte vite’, oggi troppo smemorata e quindi sradicata”.
(http://www.crocerealedisavoia.org/yves-de-gaulle-nella-citta-della-bollente).
A Scienze Politiche si succedettero come presidi, dopo Alessandro Passerin, Norberto Bobbio (1972-’75), il sociologo Guido Martinotti (1975-’81), quindi, per circa un ventennio, Gian Mario Bravo (deceduto a 86 anni il 29.4.2020), allievo di Firpo e Bobbio, Ordinario per decenni di Storia delle Dottrine Politiche, uno dei maggiori studiosi del pensiero di Marx e Engels, un comunista cortese di grande rigore morale. Fu lui a trasformarla da facoltà spazzatura (ove laurearsi in Disoccupazione e Scienza della Precarietà…) a facoltà prestigiosa. Il corso di Scienze Internazionali, grazie anche a Luigi Bonanate, divenne uno dei migliori d’Italia e l’eccellenza fu l’accordo con il Ministero della Difesa per la creazione di Scienze Strategiche, di cui l’artefice fu ancora una volta Bravo. Che fu pure, e tra l’altro, Direttore scientifico della Fondazione Luigi Firpo, consigliere della Fondazione Einaudi e Presidente della Società Italiana degli Storici delle Dottrine Politiche. Vennero poi il giurista Alfonso Di Giovine, nominato preside a decorrere dal 1994, ma che si dimise pochi mesi dopo l’elezione, quindi tornò Bravo per rimettere in sesto la Facoltà. Seguirono lo statistico Mario Montinaro ed il sociologo Franco Garelli, dal 2004 al 2010. L’ultimo preside fu il politologo Fabio Armao, che gestì la fine delle facoltà e il passaggio ai dipartimenti della Riforma Gelmini, raccogliendo più consensi dello storico dell’Illuminismo Enzo Ferrone. Il risultato fu però negativo per gli studi storico-politici. Per i devoti di Clio, il pensiero sociologico può offrire contributi per una più chiara formulazione dei problemi, nella valutazione critica delle forme esistenti di vita sociale e nelle escursioni dell’immaginazione nel campo dei futuri possibili, ma tali riflessioni non possono da sole portare l’ordine nel caos. Quello della società dei nostri giorni. La stessa diversità delle concezioni sociologiche riflette, più che pluralismo, la frammentazione, la mancanza di chiare indicazioni per la società e la cultura.
L’attuale Dipartimento di Culture, Politica e Società di Torino – erede della vecchia facoltà, nato dal matrimonio tra il Dipartimento di Studi Politici e quello di Scienze Sociali – è di fatto egemonizzato da sociologi e politologi, mentre gli studi storici contano sempre meno, come altrove. Cresce l’ignoranza: basta osservare le terze pagine dei nostri maggiori quotidiani, ma nessuno neppure se ne preoccupa. A che serve la storia? Nelle Università ormai predominano i sociologi. “La Storia è un bene comune, salviamola”: l’appello – lanciato nel 2019 dalle pagine di Repubblica – da Andrea Camilleri, Andrea Giardina e Liliana Segre, ha ottenuto molte adesioni da storici, scrittori, critici, artisti e personalità della cultura. Nel manifesto si chiedeva di ripristinare la traccia di Storia all’esame di Maturità, di non diminuire le ore di insegnamento nelle scuole e di non trascurare l’insegnamento universitario della disciplina. Ma è rimasto lettera morta. (https://www.repubblica.it/robinson/2019/04/25/news/la_storia_e_un_bene_comune_salviamola).
La Storia pare, in effetti, quasi finita, avversata da uno schieramento trasversale destra-sinistra, dopo la scomparsa di Franco Venturi, Renzo De Felice, Rosario Romeo, Ettore Passerin, Ruggiero Romano, Paolo Spriano, Corrado Vivanti, Rosario Villari, Paolo Prodi, Pietro Scoppola, Gaetano Arfè, Giuliano Procacci, Gastone Manacorda, Margherita Isnardi Parente, Giuseppe Alberigo, solo per ricordare alcuni nomi di quelle generazioni, dopo i Volpe, Egidi, Cantimori, Maturi, Chabod, Cognasso, Valsecchi, Ghisalberti, al di là di fedi diverse (religiose o civili) e della loro eterogeneità ideologica. Adesso quasi più nessuno è interessato alla Storia: essa non serve per illusioni, miti generazionali. Come scrisse Firpo nel già lontano 1979:
“I miti pagani dell’abbondanza e della giovinezza ci si ripresentano con il loro volto più ottuso: il consumismo sfrenato delle cose stupide e inutili, il pavido servilismo verso i giovani quali portatori di verità spontanee e gratuite. Gli uomini si profumano e ricolorano le chiome, portano vesti sgargianti, si travestono da adolescenti, rincorrono con affanno le mode più capricciose, quasi per dimenticare ciò che li aspetta da vicino, appostato in crocevia forse inevitabili: il cancro, l’atomica, l’inutile stupidità dell’esistere… Col ’68 si raggiunse l’ultima diga, l’Università, e le sussiegose statue dei ‘baroni’ furono abbattute. La universale libertà di studiare unita alla universale facoltà di insegnare ha generato l’universalissima rivendicazione dell’ignorare, il rifiuto di ogni sapere“.
Ci fu un tempo, ormai remoto, quando gli storici erano in Italia tenuti in gran considerazione. Esempio fu Pasquale Villari (Napoli, 1827- Firenze, 1917), Senatore del Regno e Ministro della Pubblica Istruzione dal 1891 al ’92 (Gabinetto marchese Di Rudinì). Nato a Napoli nel 1827, allievo di Basilio Puoti e Francesco De Sanctis, pronunciò nel 1866, dopo le battaglie perdute a Custoza e Lissa, la famosa e realistica filippica Di chi è la colpa?
«Bisognerà però che l’Italia cominci col persuadersi che v’è nel seno della nazione stessa un nemico più potente dell’Austria, ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete, i burocrati macchina, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, l’operaio inesperto, l’agricoltore patriarcale e la rettorica che ci rode le ossa. Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino, ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e di 5 milioni di Arcadi».
Un passo indietro. A proposito degli studi storici in Italia, nel 1934 nacque la Giunta Storica Nazionale, su sollecitazione esterne ed esigenze concrete:
‘per la costituzione di un ente internazionale di scienze storiche – che aveva portato, nel 1928, alla costituzione di un Comitato italiano del quale facevano parte Volpe, Calisse, De Sanctis, Ussari e Fedele – ed il rilancio dei congressi internazionali. Si inserì in posizione di rilievo nel contesto dell’ampia e complessa politica avviata dal fascismo nel settore dell’organizzazione degli studi, anche di Storia. Nel febbraio 1935 un R.D. ne ampliava le competenze a sancire la dipendenza da essa di tutti gli istituti operanti nell’ambito della ricerca storica. Era il disegno di De Vecchi di Val Cismon, che ne fu anche presidente fino al 25 luglio 1943. Dopo una breve gestione transitoria di Ercole e di Cardinali, nel settembre 1944 la Giunta fu commissariata. Da quel momento la resse per 7 anni Gaetano De Sanctis. L’attività della Giunta conobbe alcuni momenti alti, come quello che caratterizzò lo svolgimento a Roma, nel 1955, del Decimo congresso internazionale di scienze storiche. Pur nella costante lotta per la conquista di dotazioni adeguate la presidenza Chabod del Congresso internazionale di Stoccolma del 1960, da un lato, e le iniziative per il centenario dell’unificazione italiana dall’altro, dettero impulso a iniziative di rilievo, come il Convegno sul movimento unitario nelle regioni d’Italia del 1961. Tra l’altro proprio a questa fase vanno ricondotte alcune importanti riflessioni sull’organizzazione della ricerca storica in Italia, come quelle di Morghen. Ad Aldo Ferrabino, che aveva guidato la Giunta dal 1951 al 1972, successero nella carica di presidente prima Giuseppe Ermini e poi Giovanni Spadolini, con il quale la Giunta passò dal Ministero della Pubblica Istruzione a quello dei Beni Culturali. Alla scomparsa di Spadolini furono nominati alla presidenza Renzo De Felice e dopo di lui Rosario Villari. Nel complesso l’attività della Giunta è stata piuttosto debole. Essa ha ristretto i propri compiti quasi esclusivamente alla redazione della Bibliografia storica nazionale’. (Da Intervista a Paolo Prodi, Presidente della Giunta Storica Nazionale di Ilaria Porciani, Bologna, 24 giugno 2003, in https://www.sissco.it/articoli/annale-iv2003-1027/a-proposito-dellorganizzazione-1030; https://aquarius.gcss.it/it/storia).
Oltre a De Vecchi, fecero parte della prima Giunta Gioacchino Volpe, Annibale Alberti, Francesco Salata, Emilio Re. Come Presidente della Giunta, ammetteva nel 2003 Paolo Prodi:
‘Noi stiamo vivendo un momento estremamente cruciale in cui è in gioco la stessa sopravvivenza degli studi storici: molte generazioni e gli stessi nostri maestri, che ci hanno preceduto, hanno avuto la fortuna di lasciarci avendo la tranquillità derivante dalla solida tradizione delle università, dell’insegnamento. A noi non è dato di possedere questa tranquillità. L’avvenire stesso del nostro mestiere è in pericolo. Non voglio e non posso fare un discorso generale su insegnamento e funzione sociale della Storia oggi: fine dello storicismo o fine della Storia, la crisi della funzione tradizionale della storia come fondamento dell’educazione civica delle nuove generazioni in un contesto in cui tutta l’attenzione è concentrata in un presente senza tempo. Queste sono le condizioni in cui gli storici si trovano a lavorare in tutto il mondo. Certamente la stessa “globalizzazione”spinge verso la concezione della storia come un fardello del passato di cui è meglio liberarsi per poter correre più velocemente verso il futuro. Come sostiene Negroponte (n.d.r. Nicholas Negroponte, un informatico ed architetto statunitense fondatore e direttore del Laboratorio di disegno e nuovi mezzi dell’Istituto Tecnologico del Massachusetts) gli studi storici sono un bagaglio pesante dal quale bisogna liberarsi per entrare nel nuovo mondo dell’informazione. Non è una crisi della storia nel senso di Fukuyama, ma una crisi del sapere e dell’approccio storico. Si ha ovunque una sovrapposizione tra storia e fiction che rappresenta un problema anche per la formazione delle nuove generazioni. Non si tratta soltanto di un politically correct (censura preventiva o adattamento della ricerca alle necessità del potere), ma di un culturally correct in cui non è possibile distinguere il vero dal verosimile. Quello che sta avvenendo da alcuni anni a livello altissimo o basso è un’altra cosa: i giovani rischiano proprio di perdere il senso della Storia come “problema” e tutti veniamo ridotti a minorenni intellettuali, consumatori ideali di “omogeneizzati” senza sapore. Mi pare rilevante anche quanto accade nell’Università, dove da un lato i corsi da laurea in Storia fondati forse per reazione necessaria e sorti in modo tumultuoso a partire dagli anni Settanta hanno finito in molti casi per chiudersi su se stessi e per diventare sempre più autoreferenziali. Contemporaneamente gli insegnamenti storici sono stati espulsi o marginalizzati dai corsi di laurea tradizionali, mentre d’altra parte altri corsi di laurea sono nati del tutto privi della dimensione storica’.(https://www.sissco.it/articoli/annale-iv2003).
Diciamo pure che la Storia annoia ora vari giovani perchè è diventata storia di vittime, di soprusi, di genocidi. Il giovane ha bisogno di epica, di sallustiana memoria, non sempre e solo di vicende lontane di dolore, soprusi, discriminazioni, a volte ipocrite. Non si possono servire ai giovani in continuazione, su tutti i canali TV, storie di olocausti, razzismi, schiavitù, perdenti. E che cavolo! Il giovane ha bisogno di vitalità e un po’ di trasgressione. A me da ragazzo piacevano Achille, Napoleone, Ettore Fieramosca, El Cid, non lugubri rievocazioni di läger e ‘soluzioni finali’, anche se vere. Amo la Storia perchè ho amato gli eroi, veri o presunti tali, non il Diario di Anna Frank, per commovente o fondamentale ch’esso sia. Se per Benedetto Croce ogni storia era sempre ‘storia contemporanea’, perché ‘è evidente che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato’, se ne potrebbe dedurre che la vita presente non offre stimoli e progetti, neppur ‘la storia della libertà’, ridotta a paccottiglia propagandistica USA (The homeland of heroes) di grana grossa, spargendo antinazismo e antiradicalismo islamico, narrati con manicheismo yankee da History Channel, H2, Discovery ecc. Il castrismo appare dimenticato.
Su La necessità di una ricerca storica libera (e senza certezze) ha pubblicato su Barbadillo un bell’articolo il medievalista Franco Cardini, il 18 settembre 2016:
‘Chiediamoci dunque che cosa significhi, oggi, fare quello che alcuni decenni or sono Marc Bloch, nella sua straordinaria Apologia della storia, poteva ancor definire “il mestiere di storico”. E’ ancora oggi un “mestiere”? E utile a chi, a parte a coloro che sono stipendiati per farlo? In fondo, l’interrogativo è sempre lo stesso: “Ma insomma, a che serve la storia?”. Quando Bloch scriveva le sue belle, ancor oggi fondamentali pagine, il mondo credeva ancora che la storia servisse: anche se non si sapeva bene a che cosa. Ci credeva la scuola, che in tutto l’Occidente le assegnava il ruolo di materia formativa fondamentale; ci credevano gli Stati e i popoli, che nella storia cercavano le radici della loro identità e il senso del loro più o meno “manifesto” destino; ci credevano gli studiosi e gli uomini di cultura, convinti che essa avesse un senso, una ragione, un fine; ci credeva la gente di tutti i giorni, persuasa che “la Storia si ripete”, che “la Storia è Maestra di Vita”. Ci sono stati momenti nei quali la storia è stata importante: a scuola e altrove. Tutte le volte in cui la società si è incontrata con un progetto civile “forte”- non importa se giusto o sbagliato – e ha sentito o creduto di aver bisogno di eroi, di modelli…. Nella storia, magari taroccata, si cercavano ispirazione e giustificazione. Ci s’identificava. Oggi non è più così. Oggi si vive alla giornata, con molte preoccupazioni, ma senza progetti’.
Nello stesso 2016 appare Come si manipola la memoria, un piccolo libro di Pierre Nora (Parigi, 1931), illustre rappresentante della Nouvelle Histoire, Accademico di Francia, direttore editoriale di Gallimard. La dimensione scientifica e quella politico-civica s’intrecciano per l’autore, anche oggi, con l’aggravante della crescente intrusione della giustizia nella storia, per cui la Storia è sempre più spesso enunciata secondo la prospettiva delle vittime e dei “testimoni”. Si arriva così alla storia per legge dello Stato, come è avvenuto in Francia con la legge Gayssot, che dal 1990 punisce la negazione del genocidio degli ebrei. Pierre Nora, ebreo ed antinazista, ha sempre combattuto questa invasione dei legislatori nel campo degli storici: ‘Agli esponenti politici spetta l’omaggio, il riparare i torti subiti dalle vittime, onorare la loro memoria ed organizzare commemorazioni. Agli storici, invece, tutto il resto: stabilire i fatti, cercare la verità, proporre interpretazioni, senza vincoli né tabù’. Nora mette in guardia contro l’estensione abusiva del concetto di ‘crimine contro l’umanità’, rivendicando il ruolo dello storico, interprete e intermediario, filtro necessario: ricorda ai militanti della memoria, da un lato, e ai detentori del potere, dall’altro, quello che il passato autorizza e quello che non permette.
Quanto mai opportuno ricordarlo, ai tempi dello stramaledetto Covid, ma anche della sciagurata Cancel Culture e dell’italico progetto di legge (2020) per combattere l’omofobia e la transfobia: il ddl Zan-Scalfarotto, che è l’ architrave della ‘piattaforma Cirinnà’. Movimento 5 Stelle, Italia Viva, Partito Democratico risultano divisi su molti temi, ma sulla liberalizzazione coatta dei ‘nuovi diritti’ non c’è dibattito: sono tutti d’accordo. Chi osa criticare il gender rischia la galera e l’ostracismo, nel trionfo dell’orwelliana (e stalinista) ‘Polizia del Pensiero’.