Per una democrazia “matura”, quale la vulgata corrente considera la Repubblica italiana, nata nel 1946, non è un bel segnale l’appello “Libera parola in libero Stato”, pubblicato sul quotidiano “La Ragione”(e ripreso dalla Fondazione Hume) a firma di Luca Ricolfi e Paola Mastrocola.
Il titolo dell’appello ha una sapore ottocentesco, di quando la libertà d’espressione era ancora per pochi e doveva essere conquistata a furor di popolo. Le ragioni dello scritto di Ricolfi e Mastrocola, a ben leggere, sono però tutt’altro che datate. Gli incubi orwelliani hanno, oggi, l’immagine dei nuovi legislatori del linguaggio di marca progressista. E’ il regime dell’artifizio e dell’ipocrisia: circondati come siamo – notano i due autori – “di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che fa sfoggio e crede con esse di aver mutato e risanato il mondo. Così accade che la gente abbia un linguaggio suo, un linguaggio dove gli spazzini sono spazzini e i ciechi sono ciechi, e però trova quotidianamente intorno a sé un linguaggio artificioso, e se apre un giornale non incontra il proprio linguaggio ma l’altro. Un linguaggio artificioso, cadaverico, fatto di quelle che Wittgenstein chiamava parole-cadaveri”.
Parallelamente cresce la schiera dei potenziali offesi, “di tutti coloro che si sentono vittime di un odio o anche solo di una trascuratezza o maleducazione, o persino di un’intenzione”.
Di fronte ad accuse del genere, non stupisce che l’appello dei LiberoParolisti, come si definiscono gli estensori del manifesto “Libera parola in libero Stato”, non abbia suscitato la curiosità dei mass-media ed il conseguente dibattito sul tema. Tutto tace, quasi che quanto denunciato da Ricolfi e Mastrocola sia una bizzarria, un non-tema all’ordine del giorno di un’Italia avviata invece sulla strada della “cancel culture”, impegnata ad azzerare ogni manifestazione di pensiero che non sia allineata al potere del “politicamente corretto”. Fino al punto da alimentare – ecco Orwell che fa ancora capolino – il sospetto e la paura.
Meglio allora censurare preventivamente, mettere la sordina alle idee e alle parole non conformi e tirare il freno al libero confronto. “In questo clima – si legge al sesto punto dell’appello – la libertà di espressione declina non tanto perché le suscettibilità offese possono ricorrere alla magistratura, naturalmente sensibile allo spirito del tempo, per punire ogni manifestazione giudicata lesiva della propria sensibilità, autostima, reputazione, onorabilità; ma perché sono le stesse istituzioni pubbliche e private a provvedere motu proprio a sanzionare i reprobi, senza aspettare la condanna della magistratura, sulla sola base della violazione di codici aziendali o etici più o meno espliciti”.
Argomenti delicati come il razzismo, la violenza sessuale, l’immigrazione vengono così autosilenziati per timore di essere fraintesi. L’imbarazzo diventa uno stato mentale, in un mondo di “suscettibili” nel quale è l’autocensura a prevalere, il quieto vivere ad imporsi, perfino in ambiti ristretti, nei salotti privati o nelle cene tra amici, dove certi temi sono tabù e la dissonanza rispetto al clima dominante rischia di provocare la rottura di legami sociali e perfino affettivi.
Il risultato – concludono Ricolfi e Mastrocola – è che “in un’epoca nella quale l’ideologia fondamentale del progressista è divenuta il politicamente corretto, e il politicamente corretto stesso è diventato il verbo dell’establishment, non stupisce che la censura di ogni espressione disallineata sia diventata una tentazione per la sinistra, e la lotta contro la censura una insperata occasione libertaria per la destra”.
Nel rimescolamento dei principi, perfino quelli che si vorrebbero posti a fondamento del sistema costituzionale, saltano le vecchie definizioni di scuola e le etichette ideologiche – aggiungiamo noi – perdono di significato. Urge allora una chiara “presa di coscienza”. Nella misura in cui la censura di ogni espressione “non conforme” è diventata la bandiera del moralismo di sinistra, la libera parola torna ad essere una battaglia all’ordine del giorno. Contro i vecchi ed i nuovi moralisti. Per tornare ad essere liberi, ma liberi veramente.