Tra l’idea, un po’ luddista, di opporsi ad oltranza all’invasività tecnologica e quella aprioristicamente “progressista”, fondata sulla positività assoluta della tecnologia, c’è spazio per una “terza via”, in grado di puntare sulla governabilità dei processi socio-culturali e produttivi di trasformazione?
Il luddismo – giusto per guardare alla Storia – non ha portato molta fortuna a quanti si opponevano alla prima rivoluzione industriale. Sviluppatosi all’inizio del XIX secolo in Inghilterra (sull’esempio di Ned Ludd, un giovane operaio, forse mai realmente esistito, che nel 1779 avrebbe distrutto un telaio in segno di protesta) il luddismo si manifestò quale forma estrema di sabotaggio verso le nuove macchine tessili, considerate responsabili dei bassi salari e della disoccupazione. Culmine della protesta fu l’assalto, nel 1812, alla manifattura di William Cartwright nella contea di York a cui seguì un processo di massa (164 imputati), che portò a tredici condanne a morte, sulla base della Frame Breaking Bill, una legge che introduceva la pena di morte per “… coloro che distruggono o danneggiano telai per calze o per pizzi o altri macchinari o strumenti usati nella manifattura del lavoro a maglia su telaio o di qualsiasi articolo o merce su telaio o simile macchinario”.
Migliore risultati – alla prova dei fatti – non ha avuto la corsa del macchinismo industriale, sviluppatosi nella seconda metà del XIX secolo, allorquando l’introduzione di nuovi macchinari, monovalenti, ha favorito l’occupazione di operai dequalificati, fino a realizzare forme aberranti di sfruttamento della manodopera, attraverso l’utilizzo di donne e bambini.
Il taylorismo, nuova scienza del lavoro industriale, assimilato filosoficamente ai pionieri della conoscenza razionale (Da Bacone a Descartes a Taine) fece – si disse – quello che Claude Bernard, padre della medicina sperimentale, aveva elaborato per i fenomeni naturali, legati deterministicamente da relazioni necessarie, funzione di un certo numero di variabili indipendenti, di fattori. Al fondo lo scientismo applicato all’organizzazione del lavoro, alla società, ai modelli economici. Con i risultati che – oggi – sono bene evidenti a tutti e che Alexis Carrel, Premio Nobel nel 1912, per la fisiologia e la chirurgia fisiologica, condensò nel suo saggio-denuncia L’uomo, questo sconosciuto, critica esemplare verso l’egualitarismo, l’economicismo ed il meccanicismo del mondo moderno e dei suoi risultati: “L’uomo – scriveva Carrel – non sopporta impunemente il sistema di vita ed il lavoro uniforme e stupido imposto agli operai delle fabbriche, agli impiegati di banca, a coloro che debbono assicurare la produzione in massa; nella immensità delle città moderne, l’uomo è isolato e sperduto, è una astrazione economica, un capo di bestiame e perde le sue qualità di individuo, perché non ha né responsabilità né dignità. In mezzo alla folla emergono i ricchi, i politici potenti, i banditi in grande stile: gli altri sono polvere anonima”.
In questo contesto parliamo di luddismo e di determinismo scientista non a caso. L’ emergente industrialismo fu segnato dai confusi tentativi del primo e dal trionfo del secondo. Ci fu bisogno di un secolo per moderare le esasperazioni del taylorismo, segnate dall’idea dell’adattabilità della macchina umana (il lavoratore) al ritmo della macchina meccanica. Fino a giungere alle esasperazioni del fordismo e all’estrema razionalizzazione del ciclo produttivo, attraverso la catena di montaggio. Ora siamo ad un altro giro di boa nei processi di trasformazione del lavoro. La sfida è con gli algoritmi e con la “straripante perfezione delle macchine” – per dirla con Günther Anders (L’uomo è antiquato) a cui occorre opporre non tanto o non solamente un generico formalistico giuridico, quanto una nuova volontà sociale, in grado di rendere “partecipate” le nuove trasformazioni tecniche e produttive. Una “terza via” – in buona sostanza – in grado di favorire l’integrazione tra chi i nuovi strumenti tecnologici dovrà gestire (a cominciare dai lavoratori) e chi è il “titolare” dell’azienda (sul quale ricadono peraltro rilevanti responsabilità sociali che vanno ben oltre i confini della singola impresa).
Tra il velleitarismo di marca luddista e il laissez faire, laissez passer, sui cui limiti “gestionali” esiste ormai una ricca letteratura, c’è bisogno di ritrovare una nuova integrazione sociale, in grado di contemperare gli interessi in campo, di alimentare la solidarietà, di realizzare un’azione generale e combinata (dalle aziende, al territorio, alle categorie organizzate, allo Stato). Per lasciarsi finalmente alle spalle le sterili tentazioni distruttive e le assolutizzazioni dello scientismo tecnologico, asservito al potere economico e al produttivismo.
Oddio, si può fare come gli Hamish, che dopo infinite discussioni adottarono il trattore in agricoltura: purchè senza pneumatici!