Certi libri sono proiettili scagliati contro le vetrine ipocrite del conformismo dilagante. Altri ancora, fiaccole che orientano talune minoranze austere nelle fasi oscure di una civiltà e dei suoi eventi. Ci sono poi quei libri che sembrano essere entrambe le cose; non è detto superino il verdetto della storia, e quasi mai succede che modifichino realmente gli assetti che sostengono di dover contrastare. Ma riescono incredibilmente a comunicare, a trasmettere. Sono fuochi in grado di scatenare incendi, ululati che minacciano di ridestare coscienze sopite. Nella grande notte delle tradizioni e delle identità, energie carsiche riaffiorano: alcuni scritti aiutano quindi ad alimentarle, a ri-sollevarle. E’ il caso di Coraggio! (edito da Passaggio al Bosco), vero e proprio “manuale di guerriglia culturale” che François Bousquet -demiurgo ispiratore di Revue Eleménts e della Nouvelle Librairie– ha riposto come un seme fecondo nelle terre aride della nostra Europa. Pagine intense, avveniristiche si susseguono nell’appello vulcanico che irradia dalla sua composizione. Un’eco vigorosa che supera venti avversi per giungere al cuore e all’anima di chi vuole accoglierla e adoperarla. E -d’altra parte- non poteva essere altrimenti: lo scrittore d’avanguardia elude comodi piagnistei o vaniloquenti richiami a fantomatiche età dell’oro. Si spinge oltre. Propone dei modelli, offre una guida pragmatica per affrontare la prassi della quotidianità. Il manuale di Bousquet risponde pienamente a questi canoni; ha un fine preciso, interlocutori privilegiati. In gioco il destino metapolitico della Nazione boreale, oppressa dalla tracotanza straniera e (quel che è peggio) avvilita dalle subdole tossine interne che in nome del materialismo sovrano l’hanno tradita e umiliata. Serve coraggio allora, dice Bousquet. Il coraggio archetipo ancestrale dell’Europa quando, nelle immagini sublimi di Achille e Ulisse e Ettore, ispirò Omero nostro maestro. Lo stesso coraggio che lo scrittore francese chiede a noi, eretici ortodossi; ci esorta a rompere gli steccati del silenzio e a farci soldati ideali nella comune battaglia valoriale cui siamo inderogabilmente chiamati a rispondere. E’ necessario abbandonare il localismo sterile, lasciare le enciclopedie polverose agli amanti dell’immobilismo meditativo. Immergere le mani nella pasta fangosa della realtà: solo così potremo regalare un esito alla nostra militanza, sostanziare i principi e la visione del mondo che dichiariamo di difendere.
Bisogna sin da subito, insiste Bousquet, creare una contro-società civile, una contro-cultura. Insomma, disegnare e costruire una collettività parallela “con la vocazione all’onnipotenza”. Non è per un semplice atto cavalleresco infatti che l’autore citi i Quaderni gramsciani come bussola per la futura egemonia; il leader col “cervello possente”, scrive, è il nostro bottino di guerra, un esemplare antitetico cui affidarsi quando il mare è in tempesta: “In lui tutto s’incastra, il culturale, l’intellettuale, il politico; tutto si mescolava, la teoria e la pratica, il dirigente comunista e lo stratega della lotta culturale, lo studioso dell’anima del popolo italiano e il segretario generale del PCI”. Ma Gramsci non è l’unico esempio cui guarda Bousquet.
Lo scrittore francese esalta altri due campioni di coraggio che devono inevitabilmente animare la nostra lotta. Il primo è Aleksandr Solzhenitsyn, imprigionato nei gulag e mandato in esilio perché refrattario all’orrendo sistema di potere imperante nella Russia sovietica. “Il rifiuto della compromissione, un gesto di rifiuto individuale, inizio della liberazione collettiva”: questo deve insegnarci, suggerisce Bousquet, il premio Nobel per la letteratura che ripudiò la collaborazione -scontandone il prezzo sulla pelle- con chi avrebbe voluto sopprimere la sua voce. Non piegarsi al servigio, disobbedire.
La seconda lezione dobbiamo invece ritrovarla nell’olocausto supremo di Dominique Venner, samurai d’Occidente che cercò la bella morte nella cattedrale di Notre Dame a Parigi – mai compresa dagli odierni “professoroni”. Lo storico e intrepido combattente nella guerra d’Algeria aveva percepito i sintomi della crisi; ne aveva indagato le origini, sondando tramite anni di preziosa speculazione le conseguenze nefaste. Di qui la decisione estrema, la morte volontaria. Un sacrificio che continuerà a parlare e a parlarci. Giudicarlo appesantiti dalle zavorre del moralismo parruccone equivarrebbe a un terribile torto; e altrettanto inappropriato sarebbe considerarlo la negazione provocatoria di una vita gloriosa. Nell’intervista firmata da Adriano Scianca su Il Foglio, Fabrice -che accompagnò Venner a Notre Dame- sentenziò con illuminante potenza oracolare:
“Dominique Venner ha creato uno choc. Ma, come per i terremoti, l’onda d’urto non ha cessato di estendersi ed espandersi. Poiché egli ha voluto segnare gli spiriti, innescare una reazione tra i nostri compatrioti che si erano assopiti. Con alcuni fra noi ci è già riuscito. Ora, per la grande maggioranza, il risveglio arriverà […] Ma quando tale risveglio verrà, questo lo ignoriamo… Mentre aspettiamo, questa è la ragion d’essere di tutta la nostra vita”.
Venner rinunciò alla propria esistenza per riaffermare e rivitalizzare quella di un’entità superiore. Il suo fu il simbolo di una rivolta totale, una chiamata alle armi lanciata contro la putrefazione spirituale della civiltà europea. François Bousquet ha accolto il monito, ha impugnato la spada. Questo breviario lo dimostra, indica che l’abnegazione indomita di Aleksandr Solzhenitsyn, l’offerta audace di Dominique Venner non sono state vane: una rifondazione è forse possibile. Tocca a noi adesso agire, ribelli d’Europa. Il sole non è tramontato sulla nostra trincea.