Bello, sporco e cattivo. Violento e tenero, nato povero e diventato ricchissimo. Come il personaggio di un B-movie sulla boxe, Carlos Monzòn ha vissuto fino in fondo il cliché del campione “maledetto”, spingendo sempre sull’acceleratore della vita. Il più grande pugile argentino, inserito dai critici fra i primi cinque al mondo di ogni tempo; l’idolo delle masse sudamericane, ben prima di Maradona; l’uomo che faceva girare la testa alle femmine più belle del pianeta, con i suoi pugni d’acciaio e l’aria da indio imperscrutabile. Questo è stato Monzòn. Ma anche un campione dall’anima nera, che picchiava le donne, frequentava cattive compagnie, si ubriacava e dilapidava con straordinaria facilità le borse milionarie vinte sul ring. Una vita, se non controcorrente, quanto meno a corrente alternata; conclusa poi nel peggiore dei modi. Dall’inferno al paradiso e poi di nuovo giù.
Carlos Roque Monzòn viene al mondo settantuno anni fa, il 7 agosto del 1942, in un sobborgo polveroso di Santa Fe, partorito in casa, sesto di 12 figli di cui cinque moriranno in tenera età per malattia e uno, Zacarias, ammazzato a pistolettate. Lui stesso da bambino rischia la pelle, si ammala di tifo e i medici lo salvano a stento. Da ragazzino studia poco e si ingegna a fare vari lavoretti per aiutare la famiglia, poverissima: fa il lustrascarpe, consegna il latte, vende giornali come strillone.
A 16 anni è già padre e la nascita del primo figlio, racconterà in seguito, rimarrà uno dei tre ricordi più belli della sua vita. Gli altri non sono, come si potrebbe immaginare, legati ai trionfi sui ring più importanti del mondo, né alle conquiste sentimentali di donne bellissime come Ursula Andress e Nathalie Delon. I ricordi più importanti di Monzòn sono la conquista del titolo argentino contro Jorge Fernandez, nel 1966; e l’incontro con Juan Domingo Peròn: «Il presidente mi parlava come se mi conoscesse da sempre, a me sembrava di sognare». L’indio di Santa Fe – un po’ come farà Maradona vent’anni più tardi – dedica tutti i suoi trionfi sportivi al suo Paese e al popolo argentino. «Carlos è sempre stato peronista e nazionalista convinto – sottolinea in un’intervista Osvaldo Principi, il commentatore di boxe più famoso dell’Argentina – e quando dedicava le sue vittorie a Santa Fe e alla nazione non lo faceva per demagogia, è sempre stato sincero con il popolo argentino».
La svolta vincente di quel peso medio troppo alto (1,84 centimetri) per la sua categoria è l’incontro con Amilcar Brusa, l’uomo che rimarrà sempre al suo fianco in veste di manager, allenatore, amico e confessore. Brusa intuisce in quell’indio cresciuto in povertà un pugile completo, magari non esplosivo ma senza talloni d’Achille: già a vent’anni Monzòn ha il pugno pesante, una buona tecnica ed è un ottimo incassatore. E poi, forse la sua migliore qualità, sul ring è freddo, tranquillo, determinato. A tratti persino spietato. Il suo palmarés finale – su 102 incontri in carriera ne ha vinti 90, di cui ben 59 per kappaò; 9 pareggi e solo 3 sconfitte, tutte ai punti – lo testimonia più d’ogni altra parola.
Sette anni dopo il suo esordio sui ring di provincia argentini, Carlos vince il titolo mondiale mandando al tappeto il campione in carica Nino Benvenuti a Roma, davanti al suo pubblico. Sei mesi dopo, alla rivincita in programma a Montecarlo, il nostro pugile triestino è addirittura costretto a ritirarsi dopo appena tre round e di fatto abbandona il mondo della boxe. Monzòn è il numero uno al mondo e ci resterà per quasi 7 anni. A questa difesa del titolo ne seguono altre 13, un record nella categoria: sotto i suoi colpi cadono campioni affermati come Griffith, Briscoe, Nàpoles, Tonna. Spettacolari i due incontri con il colombiano Rodrigo Valdez, al quale l’argentino lascia campo libero solo ritirandosi imbattuto il 30 agosto del 1977. A differenza di altri colleghi, Carlos Monzòn non tornerà mai più sul ring, evitando di esibirsi in incontri che mettessero in luce l’ormai inevitabile decadenza.
Se la carriera sportiva di Monzòn è stata fulgida ed esemplare, la vita privata si rivela un disastro. Donnaiolo impenitente e amante della bella vita (lo si vede spesso in Costa Azzurra, in compagnia di Pierre Cardin, Alain Delon, David Niven, Jean-Paul Belmondo), il pugile argentino esce in maniera tumultuosa dal matrimonio con Mercedes, madre dei suoi primi quattro figli: stufa di sopportare le sue continue scappatelle, una sera la donna lo attende armata di pistola e gli spara addosso, ferendolo a un braccio. Il verdetto dei medici è severo: «Difficilmente potrà tornare a picchiare con quel pugno». Tre mesi più tardi sale di nuovo sul ring, a bastonare Griffith.
Una volta appesi al chiodo i guantoni si dedica al cinema, gira un paio di film di modesto successo e frequenta il jet-set del Grande Schermo, dove colleziona flirt con attrici e attricette. «Una volta a Nizza – racconterà in un’intervista al Corriere della Sera – feci l’amore con Ursula Andress in ascensore, fermandolo fra un piano e l’altro. L’accompagnai nella sua stanza e incontrai nel corridoio l’altra protagonista del film, Nathalie Delon. E rifeci l’amore con lei scendendo nell’ascensore, fermandolo allo stesso punto di prima». In Italia nel ’76 gira una pellicola “poliziottesca” con Luc Merenda e Giampiero Albertini, “Il conto è chiuso”. Ed è proprio sul set di un altro film, “La Mary”, che conosce Susana Gimènez, considerata la Brigitte Bardot sudamericana. E’ amore a prima vista e i due vanno a vivere insieme, ma dura poco.
Si risposa con una modella uruguaiana, Alicia Muñiz, dalla quale ha un quarto figlio, Maximiliano Roque. Ma la sua parabola è ormai discendente: gran parte del patrimonio guadagnato in 15 anni di boxe è stato dilapidato e il cinema gli volta le spalle. L’ex pugile beve sempre più spesso, litiga di continuo con la moglie. La sera di San Valentino del 1988, nella città di villeggiatura di Mar del Plata, Alicia precipita dal balcone di casa e muore. Sembra un incidente, ma sul corpo ha evidenti segni di percosse e di strangolamento. Monzòn, ubriaco perso, parla di un incidente, ma non viene creduto. Neppure il presidente Menem, suo amico, può fare nulla: è condannato a 18 anni di carcere, poi ridotti a 11.
In galera cerca di cambiar vita: smette di bere, lavora, legge libri, si avvicina alla religione, scrive lettere al piccolo Maximiliano. Un giorno lo va a trovare il suo vecchio amico-nemico del ring, Nino Benvenuti, e l’abbraccio fra i due ex campioni è sincero. Dopo sette anni di cella, grazie alla buona condotta, gli viene concesso di uscire di giorno dal carcere. Ed è proprio al rientro da un permesso, l’8 gennaio del 1995, mentre viaggia a folle velocità verso il penitenziario, che avviene la tragedia: Monzòn perde il controllo della Renault 19, che si ribalta ai 140 all’ora. Ai funerali partecipano 20 mila persone, perché l’Argentina profonda non gli ha mai voltato le spalle. Cori da stadio e striscioni: «Anche se una stella muore – recitava uno – la sua luce continuerà a brillare».