Stamattina, alle 8.15 ora giapponese, si è tenuta come ogni anno a Hiroshima la cerimonia per commemorare le centinaia di migliaia di vittime del primo attacco nucleare effettuato su popolazione civile, l’esplosione della bomba atomica il 6 agosto 1945.
Trascrizione della conversazione telefonica del 6 agosto 1945, ore 14:00, tra il Gen. Groves, Direttore del Manhattan Project, e il Prof. Oppenheimer (U. S. National Archives, Record Group 77, Manhattan Engineer District, 201 Groves).
Groves: Sono molto orgoglioso di Lei e della sua squadra.
Oppen: È andata bene?
Groves: Sembra che sia stato un grande botto (“a tremendous bang”).
Oppen: Quando è stato? Dopo il tramonto?
No. Di prima mattina.
Negli ultimi anni ho avuto varie volte l’onore di partecipare alla cerimonia del 6 agosto a Hiroshima. È difficile distrarsi da quelle emozioni mentre si attende il rintocco della campana, in piedi in silenzio immobili sotto il sole cocente, con il solo rumore assordante delle cicale.
La cerimonia si svolge nel grande complesso disegnato da Kenzo Tange. È il Peace Memorial Park, dove un italiano può passeggiare e sostare commosso, sollevato almeno da quel peso sulla coscienza, da una sorta di colpa collettiva. Guardando il fiume dove forse scorrono più fantasmi che acqua, può osare di pensare: “noi non c’entriamo”. Eppure nei percorsi interni al museo, dove si racconta non solo la tempesta di fuoco che venne scatenata quella mattina, ma anche le sue fasi preparatorie, i gradini infernali di lucidità e spregiudicatezza che furono scesi per arrivarci, c’è anche un nome italiano che ricorre spesso: quello di Enrico Fermi.
Non sono mancati in passato gli interrogativi etici sul ruolo degli scienziati del “Progetto Manhattan” – incluso il premio Nobel Enrico Fermi – riguardo allo sviluppo e all’utilizzo della bomba atomica sulle città di Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945.
Oggi inserendo il nome di Fermi in un motore di ricerca, appare un lungo elenco di scuole e licei di tutta Italia intitolati a questo scienziato italiano naturalizzato americano. In questi istituti, bambini, ragazzi e ragazze di tutte le età imparano le regole della convivenza civile, i valori etici e morali. Ricordo anche come anni fa in un’intervento alla Scuola Normale di Pisa, l’allora Presidente del Senato Marcello Pera sostenne che Enrico Fermi fece una scelta personale: “difese i cittadini americani e con essi, difese l’Occidente, la nostra cultura, i nostri valori.”
Dopo essermi trasferito in Giappone, impiegai oltre due anni prima di visitare Hiroshima. Erano troppo forti in me la sensibilità e anche l’affetto per un paese da cui avevo ricevuto – e continuo a ricevere – così tanto. Lo stesso modo in cui non si vuole veder soffrire una persona che si ama. Quella volta incontrai il Professor Yasuo Harada, medico di chiarissima fama, già Presidente dell’Università di Hiroshima, quasi ottantenne ma anche violinista e cantante lirico; una personalità brillante, piena di interessi e di passione per l’Italia.
Il 6 agosto 1945 Yasuo Harada era uno scolaro di circa 10 anni, e abitava con sua madre in una casa sulle colline, appena ai margini della città. Harada ricordava come quella mattina fosse particolarmente afosa, e che quindi gli abitanti di Hiroshima erano in giro già dalle prime ore del giorno. Il piccolo Yasuo era rimasto a casa, perché stava poco bene. I suoi compagni di classe erano di turno in centro città, per smontare le costruzioni in legno che rischiavano di favorire gli incendi.
Si era diffusa negli abitanti di Hiroshima, che sinora non era stata praticamente mai bombardata, una sorta di convinzione che la città sarebbe stata risparmiata dagli alleati. Questa speranza era dovuta al fatto che in quella città, come in altre dell’Ovest, vi era una forte presenza cristiana.
In realtà sappiamo che il motivo era tutt’altro. Le autorità militari americane, insieme agli scienziati del Manhattan Project, riuniti il 10-11 maggio 1945 nella cosiddetta “Commissione Bersagli” (Target Committee), avevano individuato un numero di città più adatte – per dimensione e per concentrazione di abitanti – per studiare a fondo gli effetti di un bombardamento atomico. Così Hiroshima, Kokura, Yokohama, Niigata, e anche Kyoto, non furono mai bombardate, ma solo per non compromettere i risultati dell’esperimento.
Il primo aereo americano passò verso le 7.30 del mattino, facendo scattare le sirene antiaeree. Nessuno a terra, mentre andava di corsa ai rifugi, poteva immaginare che quel passaggio servisse solamente per fotografare la città prima dell’esplosione.
Il secondo aereo, l’Enola Gay, arrivò tre quarti d’ora dopo, quando già da dieci minuti erano scattate le sirene di fine allarme. Quindi tutti erano ormai di nuovo in strada, anche i compagni di classe del piccolo Yasuo, che intanto dalla finestra di casa guardava luccicare quello strano aereo solitario. La luce accecante dell’esplosione, avvenuta a circa 500 m di altezza sul centro della città, fu seguita da un tuono fragoroso e poi da una tenebra cupa e spaventosa, sotto un mostro di fumo e fiamme alto fino al cielo. In un secondo furono cancellate le vite di circa 120.000 persone. Le altre 140.000 sono morte nelle settimane successive, tra orribili sofferenze.
Due giorni dopo, il Presidente Truman informò la nazione che una nuova potentissima arma era stata utilizzata per distruggere “Hiroshima, una base militare”. Così avevano fallito le “colombe” tra gli scienziati del Progetto Manhattan che avevano tentato, prima su iniziativa del Prof. Leo Szilard, poi con un “Rapporto Franck” dell’11 giugno 1945, di ottenere la rinuncia all’utilizzo della bomba su un obiettivo civile, proponendo invece l’organizzazione di un’esplosione dimostrativa della bomba in un deserto o su un’isola disabitata. C’è da dire che erano colombe per modo di dire anche questi professori, se si considera che nella storia del Manhattan Project non mancano i racconti di esperimenti su cavie umane ignare, anche iniezioni di plutonio in pazienti scelti negli ospedali civili e militari di Chicago e Rochester.
Nel “Franck Report”, redatto quando peraltro il Giappone sembrava già avvicinarsi alla resa, le colombe sostenevano che l’efficacia della bomba atomica per fini militari era tutto sommato relativamente scarsa, e che “se gli USA avessero per primi scatenato questa forza di distruzione indiscriminata sull’umanità, avrebbero perso il loro sostegno internazionale, precipitando la corsa globale agli armamenti”. Tuttavia, a convincere l’Interim Committee incaricata della decisione furono invece i “falchi” del comitato scientifico: A. H. Compton, E. O. Lawrence, J. R. Oppenheimer ed Enrico Fermi. Lo “Scientific Panel”, di cui faceva parte anche lo scienziato italiano, ritenne poco convincenti le argomentazioni del rapporto Franck, e spinse per l’utilizzo immediato della bomba in Giappone, “una applicazione militare molto più adatta ad indurre alla resa”.
Il terrore. L’ordine di bombardare parte quindi il 25 luglio 1945, con l’indicazione dei seguenti possibili obiettivi: Hiroshima, Kokura, Niigata, Nagasaki. Nell’ordine si precisa che il bombardiere dovrà essere accompagnato da altri velivoli, che si terranno a distanza per filmare e registrare gli effetti dell’esplosione.
A Hiroshima un’immensa nube nera già avvolge la città, il mare, e le colline intorno. La mamma di Yasuo è sconvolta. Lo chiama e gli dice di indossare subito l’uniforme, di prendere il suo zainetto e andare di corsa a scuola, come previsto in caso di bombardamenti, perché sicuramente tutti gli studenti saranno chiamati ad aiutare per portare l’acqua, spegnere gli incendi, ripulire le strade per far passare gli aiuti ai feriti.
Yasuo obbedisce e da solo, con il suo zainetto, si avvia verso la nube nera. Nonostante la paura, Yasuo cammina in questa strana polvere che sembra tingere tutto di grigio, cammina ma dopo poco finisce la strada, non riconosce più nulla. Inizia a incontrare quella che diventerà una lunga processione di feriti, ustionati, scapigliati, sanguinanti che si trascinano cercando acqua. Nella nebbia nera, Yasuo vede cose terribili, irripetibili, impossibili, ma continua sulla sua strada perché è un bambino obbediente, e non può certo passare per qualcuno che non fa del suo meglio per aiutare il prossimo. Ma ormai non vede più bene perché le lacrime della disperazione si mescolano con quella strana orrenda pioggia nera. Non c’è più nulla, nessuna scuola, nessuno studente, nessuna casa, nessuna strada. Ma cosa può fare Yasuo per per aiutare quei fantasmi sfigurati che si aggirano nelle macerie, chiedendo acqua, con la pelle in brandelli..
Vedo chiaramente quel bambino in uniforme, con lo zainetto, che piange terrorizzato ma si sforza di camminare dentro un incubo infinito di dolore e sofferenza.
Lo vedo anche perché ha la stessa uniforme dei miei due figli: camicia bianca, pantaloncini blu, cappellino, zainetto, borraccia. La loro nonna materna è di Hiroshima. Non credo che frequenteranno mai l’istituto Enrico Fermi.