«Ma ora si lasciano andare sull’acqua immobile,
misteriosi, stupendi.
Fra quali giunchi costruiranno il nido,
su quale sponda di lago o stagno
incanteranno occhi umani quando al risveglio
un giorno scoprirò che son volati via?»
È questa l’ultima delle cinque sestine d’una delle più famose poesie del ‘900 I cigni selvatici a Coole di William Butler Yeats (1865-1939), tratta dall’omonima raccolta del 1917. Yeats, che nel 1923 fu insignito del premio Nobel, fu legato, com’è noto, per tutta la vita alla causa dell’Irlanda libera, a cui si dedicò sia politicamente (nel 1922 fu anche nominato senatore dello Stato libero d’Irlanda), sia poeticamente recuperando e ricostruendo il patrimonio mitico della tradizione celtica irlandese. La sua attività, tra l’altro, culminò nella fondazione di un teatro nazionale irlandese, l’Abbey Theatre di Dublino.
Visioni celtiche e cristianesimo eretico
In Yeats convivono le visioni celtiche e un sentimento ambivalente nei confronti del cristianesimo, da un lato accusato della perdita della bellezza antica e pagana, dall’altro rivalutato nei suoi aspetti irrazionali: «Yeats si meraviglia di fronte a un prodigio: se Cristo “poté sostituire il miracolo alla ragione”. Stupore per il miracolo e la sua potenza, meraviglia per quel Cristo che amava la vita terrena, se resuscitò Lazzaro e guarì tanti infermi; incanto per la compassione e l’amore di Cristo e insieme coscienza che qualcosa della nostra luminosa e felicemente illusoria percezione del mondo andava perduto» (Roberto Mussapi). E questa contrapposizione tra amore per la vita terrena e necessità di trascenderla, tra paura della vecchiaia e celebrazione della giovinezza, tra il corpo che invecchia e il cuore che è capace di mantenersi giovane o ringiovanire, attraversa tutta l’opera poetica del poeta irlandese.
Il simbolismo del cigno
Nella poesia I cigni selvatici a Coole il senso della fugacità della bellezza e della vita si esprime pienamente e delicatamente. Il poeta comincia con l’ammirare la bellezza dell’autunno al crepuscolo con i suoi boschi, i suoi sentieri, le acque del lago che riflettono il cielo dove sostano cinquantanove cigni, e si ricorda di averli già visti lì e cercato invano di contarli diciannove anni prima, mentre si levavano in volo roteando rumorosamente. La sua ammirazione per la loro eleganza e la loro bellezza è immutata, tuttavia il suo cuore è triste:
«Tutto è cambiato da quando io,
ascoltando al crepuscolo
la prima volta, su questa riva,
lo scampanare delle loro ali sopra il mio capo,
camminavo con passo più leggero.
Ancora insaziati, amata e amante,
remano nelle fredde
correnti amiche o scalano l’aria;
i loro cuori non sono invecchiati;
passione o conquista ancora li accompagna
nel loro errante vagare.»
Il descrittivismo naturale dei versi iniziali cede il passo poco alla volta al simbolismo. Il cigno è etimologicamente colui che canta. E qui si palesa già un’affinità col poeta e il suo canto. Ma come tutti i simboli il cigno cela un duplice significato: è infatti simbolo di purezza, ma anche di lussuria, come è adombrato nel mito greco di Leda col cigno, dove Zeus si trasforma in cigno per sedurre la donna mortale di cui si era invaghito.
Che cosa guarda e cerca il poeta nei cigni? «In loro intuiva qualcosa che gli sarebbe sempre sfuggito e di cui sentiva bisogno per conseguire una vita armoniosa, quella vita che non è concessa in forma totale a nessun umano» (Roberto Mussapi). La vitalità erotica e la bellezza dei cigni che ora galleggiano sulle acque immobili – sembra volerci dire il poeta – perdura nel tempo e altri occhi, oltre la propria vita mortale, li guarderanno e altri uomini li emuleranno in quel dramma senza fine che è il riapparire del desiderio dopo l’appagamento.
Il cigno rappresenta il mistero della femminilità, della bellezza, dell’eros, che solo la poesia può cogliere e fissare in versi, malgrado il passare del tempo e la vecchiaia che incombe.