La storia del secolo XX è stata, per definizione, discriminante e manichea. La storiografia afferente all’intellettualmente corretto ha amplificato questo suo tratto: da una parte ha posto i difensori del bene, dall’altra i reprobi, i reietti e gli impresentabili. Tale divisione dicotomica è stata applicata al mondo della cultura, e ha determinato la ghettizzazione o la damnatio memoriae di molti scrittori, filosofi ed artisti di spessore. Tra essi, un ruolo di primo piano, va attribuito a Georges Bernanos, uomo di penna raffinato e passionale ad un tempo, il cui nome pare caduto nell’oblio a causa della sua iniziale militanza nell’ Action française, oltre che per la sua partecipazione alla guerra civile spagnola dalla parte sbagliata. A farne riscoprire la figura di intransigente cattolico e di scrittore di vaglia, contribuisce il bel libro di Luc Estang, Un uomo libero. Vita di Georges Benanos, da poco nelle librerie per i tipi di OAKS editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 210, euro 22,00). Il volume è accompagnato dell’Introduzione di Paolo Gulisano.
Il titolo originale dell’opera era, nella sua prima edizione del 1947, Présence de Bernanos. Uscì in Francia un anno prima della prematura scomparsa dello scrittore, che chiuse i suoi giorni a sessant’anni. Estang può essere considerato, a tutti gli effetti, non semplicemente un estimatore di Bernanos, ma suo allievo. Conclusi gli studi, egli si dette a letture forsennate dei classici francesi ed europei. Tra essi, per la sua formazione, a fianco all’intellettuale transalpino, un ruolo di primo piano lo giocò Dostoevskij. Il lettore constaterà di persona, come tale influenza si evinca con chiarezza anche da questa biografia intellettuale. Fu collaboratore e, successivamente, direttore della sezione letteraria del giornale cattolico La Croix, autore di raccolte poetiche e di romanzi di successo. Da uomo di fede, dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, Estang mantenne un’intransigente posizione anticomunista, come mostrano i contenuti del volume, L’interrogatorio. Nel 1962, nonostante l’ostracismo della cultura progressista nei suoi confronti, ottenne il Grand prix du roman de l’Accadémie Française.
Sappia il lettore che il libro che presentiamo, come rileva Gulisano: «è un vero e proprio viaggio nell’anima di uno scrittore» (p. II), che si compie a partire dalla presentazione dei dati biografici essenziali riguardanti Bernanos. Questi nacque nel 1888, cattolico e patriota si avvicinò prestissimo a Maurras. Fu, inoltre, membro del gruppo dei Camelots du Roi, raggruppamento giovanile monarchico. Fu collaboratore di diversi giornali e periodici. Riformato, in occasione del Primo conflitto mondiale per ragioni di salute, si arruolò ugualmente volontario nei Dragoni di Cavalleria. Sposò nel 1917 una discendente di Giovanna d’Arco: dalla moglie ebbe sei figli, dimostrando così sul campo la verità sostenuta da Peguy, vale a dire che i padri, coloro che educano trasmettendo la tradizione, sono i veri eroi della modernità. Si riavvicinò all’ Action française quando la diplomazia vaticana la condannò, biasimandone l’azione politica. Negli anni Venti si sostentò facendo l’assicuratore, ma ai primi successi letterari, conseguiti con il romanzo Sotto il sole di Satana del 1926, decise di dedicarsi, con tutto se stesso, al mondo delle lettere. L’essenziale della sua produzione letteraria si concentra nell’arco di un decennio, durante il quale dette voce ai: «peccati dell’umanità, la potenza del male e l’aiuto della Grazia divina» (p. IV). Nel 1932, quale collaboratore de Le Figaro, ruppe definitivamente con la cerchia degli intellettuali che attorniavano Maurras mentre, quattro anni dopo, dette alle stampe il suo capolavoro, Diario di un curato di campagna, dal quale, nel 1950, Robert Bresson trasse l’omonimo film.
Durante la Guerra di Spagna combatté a fianco dei Falangisti, ma la violenza messa in atto dalle parti in campo, gli fece comprendere come la storia sia la risultante: «(di) un immane conflitto: quello tra Dio e Satana» (p. IV), tra bene e male. Tale esperienza trasfuse nelle pagine degli scritti successivi. In essi, i protagonisti sono ribelli che: «rifiutano di conformarsi alla mentalità di questo mondo […] tutti corrono lo stesso rischio sovrannaturale» (p. V), chiosa Gulisano. Tali uomini rappresentano l’ultima frontiera del bene, luogo fisico e spirituale, in cui si combatte la battaglia decisiva, il cui unico vincitore risulterà essere Dio. Nota Estang che nelle pagine dello scrittore francese si mostra: «Virtù letteraria, è ad essa che si è sensibili dapprima, è in essa che si manifesta innanzi tutto la presenza di Bernanos. Potere dello stile» (p. 31). La sua scrittura si fonda sul tratto recitativo: «Il tono è quello di un narratore il quale vede ciò che narra» (p. 31), che presto, perciò, assume carattere descrittivo: «Il tono si innalza: interviene il lirismo» (p. 32). Bernanos non sostiene tesi, ma agita delle idee che giungono a noi attraverso la mediazione dei personaggi: «I personaggi non forniscono affatto un involucro carnale a delle idee preconcette» (p. 34). Nel curato di Ambricourt, protagonista del Diario, trova personificazione la miseria, in cui egli è vissuto prima del sacerdozio, e l’apertura alla carità che, in lui, è amplificata dall’esperienza della povertà patita. Questo è il grande tema bernanosiano, suggerisce Estang: la comprensione del sacerdote, in un’epoca in cui, su tale figura, cade il disprezzo dei più.
Altro tema rilevate è il bisogno di giustizia, che lo scrittore aveva appreso dalle pagine di Dostojevskij: ogni uomo è, in tale prospettiva, responsabile delle condizioni di vita del proprio simile. L’anelito al bene del prossimo guida le sorti dei personaggi creati dalla penna di Bernanos. Essi, sostanzialmente, sono uomini in lotta contro la stupidità dei loro simili. E’la mancanza di cognizione del senso ultimo della vita a fa scaturire la violenza, è l’insipienza del tempo presente a creare situazioni di ingiustizia assoluta: «L’ostinazione, la sufficienza e l’imbecillità sono la fonte di tutte le nostre disgrazie e chi ne dubita non ha compreso proprio nulla della natura, della storia e nemmeno della stessa vita» (p. V). Bernanos, conclusivamente, tentò con la propria azione scrittoria di svegliare, da errori ed indolenza esistenziale, gli uomini di fede del proprio tempo, in nome di un cristianesimo militante, vissuto in intensità intellettuale ed emotiva. Ciò colpisce, nelle sue pagine, anche chi, come noi, è alieno da qualsiasi soluzione fideistica. Per questo è necessario tornare a leggere Bernanos con viva attenzione.
Apprezzo la pubblicazione della biografia di Bernanos, uno dei personaggi più complessi e per molti aspetti contraddittori del cattolicesimo francese nel secolo scorso. Di lui lessi in gioventù La grande paura dei benpensanti, la biografia dello scrittore e giornalista Edouard Drumont, autore del corposo pamphlet La France juive, un best-seller dell’antisemitismo. La grande paura fu pubblicata in Italia dalle edizioni dell’Albero, all’epoca dirette da quel grande intellettuale della destra cattolica italiana che fu Alfredo Cattabiani. La prefazione era di Carlo Bo. Poi ho letto alcuni suoi romanzi, dal Diario di un curato di campagna a Mouchette in cui ho sempre notato, come del resto nella Grande paura, qualcosa di torbido, ma al tempo stesso di affascinante.
Credo che il distacco di Bernanos dall’Action Française sia stato dettato anche da altri fattori, ma certo determinante fu la sua presenza a Maiorca proprio mentre aveva luogo le stragi di repubblicani compiute sotto la direzione di Arconovaldo Bonaccorsi, un singolare personaggio cui Ciano aveva dato mano libera nell’isola in appoggio ai franchisti. Bonaccorsi era un ex squadrista che dopo la normalizzazione era stato emarginato dal regime, anche perché a Bologna utilizzava le sue benemerenze fasciste per vendette personali e anche arricchimenti illeciti. Nella guerra civile spagnola faceva comodo, e per questo venne utilizzato sotto il falso nome di Conte Rossi con il compito, fallito, di aprire la strada per l’insediamento di basi militari italiane nelle Baleari (Franco era troppo furbo per cedere spazi di sovranità…). Così gli abusi di un teppista vissuto a lungo di espedienti allontanarono dalla causa nazionalista uno dei maggiori scrittori francesi.
Un particolare curioso: Longanesi, che era un intellettuale raffinato e un grande giornalista, ma non aveva certo le physique du rôle dello squadrista, invidiava sottilmente Bonaccorsi, che a Bologna negli anni Venti “con quattro labbrate era capace di mettere a posto tutti”. Ennesima conferma dell’attrazione morbosa che i letterati provano a volte nei confronti di persone che rappresentano il loro opposto.