Non dico nulla di nuovo nell’affermare che l’”inquietudine” (inquietude, inquietação o desassossego in portoghese), particolarissimo e importante stato d’animo umano, è una presenza costante nella vita di Fernando Pessoa e, di conseguenza, all’interno di tutta la sua opera.
Del resto, tale tipo d’emozione, la quale altro non rappresenta che il tema esistenziale in versione problematica, ha da sempre – fin dagli albori dell’Umanità stessa – accompagnato l’uomo, un “animale inquieto” per natura.
Com’è noto, etimologicamente il termine “inquieto” proviene dal latino inquiètus, ossia, l’essere “turbato”, “insoddisfatto”, “non appagato”, il vivere in un’agitazione costante. L’inquieto, di conseguenza, è o dovrebbe essere colui che, per il tramite della ragione, cerca la verità, ovvero, cerca un senso totale della vita e non lo trova – per intenderci, quella pacificazione che per Sant’Agostino solo in Dio può essere rinvenuta. Sicché, a ben vedere, nel suo significato, se non propriamente “più vero”, di certo nel suo significato “più profondo” e “alto”, l’inquietudine è “energia pura”, la quale, allorquando s’accumula oltre il limite della sopportazione umana, finisce per esplodere, determinando profondi cambiamenti nella nostra vita. Eppure, se riusciamo ad “assecondarla” e a “dosarla”, a un tempo, può offrirci la possibilità di una maggiore comprensione di noi stessi, delle nostre emozioni più profonde e vere.
Diversamente detto, l’inquietudine diventa qualcosa di positivo e necessario insieme se abbiamo la capacità e la forza di “domarla”, “tenerla sotto controllo”, “ascoltarla” nelle giuste dosi. In caso contrario è destinata a sfociare in qualcosa d’inconcludente che declina, prima o poi, verso la depressione; con tutte le gravi conseguenze che uno stato depressivo comporta, inclusa anche quella dell’annullamento “materiale”, della morte in altre parole, cui la persona afflitta da tale stato emotivo giunge per il tramite del suicidio nelle sue varie forme.
Volendo riportare solo alcuni esempi di “illustri” suicidi portoghesi, viene d’immediato da pensare a un Antero de Quental (1842-1891), suicidatosi in modo “lucido” e “diretto” con due colpi di pistola, a un Alexandre Herculano (1810-1877), suicidatosi, alla maniera di alcuni monaci, per autoisolamento nella sua tenuta a Vale de Lobos, e ancora viene d’immediato da pensare allo stesso Fernando Pessoa, suicidatosi “per gradi”, come sempre accade a tutti gli alcolici cronici.
Ciò spiega il perché occorre prendere coscienza da quale angolazione si debba osservare l’inquietudine. Se si sceglie di farlo in un contesto psicanalitico – di certo quello prevalente oggigiorno – l’inquietudine non può che essere sintomo o presagio di altre manifestazioni, le quali minano l’armonia pubblica o familiare: in tali frangenti, quindi, l’inquietudine è da ritenersi a tutti gli effetti una condizione patologica, una malattia. Se, al contrario, depuriamo il termine da qualunque tipo di scorie legate tanto a stress (nel senso di una condizione psichica che, nell’esercitare stimoli dannosi sull’organismo, ne provoca la reazione), quanto ad ansie oppressive, aspettative frustrate, desideri delusi, ecco che l’angolazione da cui osservare l’inquietudine diventa quella filosofica: l’angolazione giusta, in un certo qual modo, poiché – a mio avviso – spetta alla filosofia l’aprire alla vera essenza dell’inquietudine che, in questo caso, si può definire come una costante tensione al pensare e all’agire etico di cui appunto la filosofia si è sempre occupata.
La stessa cultura, in generale, è manifestazione d’inquietudine. Ed è così vero che, in qualunque epoca, tutti i grandi artefici tanto della filosofia, quanto della letteratura e delle arti sono stati “uomini inquieti”. Questo perché l’inquietudine è uno stato d’animo caratterizzato da più “categorie” o, diversamente detto e facendo mie le parole di Duccio Demetrio – noto accademico e scrittore italiano, già professore ordinario di Filosofia dell’educazione e Teorie e pratiche della narrazione – è uno stato d’animo caratterizzato da
«una continua oscillazione tra significato della vita, percezione della morte, consapevolezza della perdita e dello scorrere inesorabile del tempo. Nietzsche rappresenta la posizione filosofica inquieta per eccellenza, quel portarsi più appresso l’inquietudine che raggiunge decretando la morte di Dio» [DEMETRIO, 2009].
Sicché risulta ovvio come una cultura che “sfugga” all’inquietudine e, di conseguenza, non si confronti con il negativo, il male, non solo si chiude in se stessa, allontanandosi dalla conoscenza, ma finisce per annullare anche i “sentieri dell’etica”.
Il grande filosofo e psicologo, nonché enciclopedista ed economista, Étienne Bonnot de Condillac (1715-1780) – peraltro citato da Pessoa/Soares nel Libro dell’inquietudine [PESSOA, 2010: 296-298 (297)] e che, lo ricordo, in particolare nel suo Trattato sulle sensazioni (1754), sosteneva la congiunzione tra sensismo gnoseologico e spiritualismo, una congiunzione in ragione della quale poté teorizzare l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima – ebbene, Condillac parla d’inquietudine o di tormento in presenza della privazione di qualcosa che si desidera intensamente. Partendo da tale formulazione del noto filosofo francese, potremmo quindi dire che l’inquietudine per eccellenza è quella che discende dal tentativo di conoscere l’inconoscibile, di sondare la vita al di là dello spazio umano, del nostro tempo finito e che, di conseguenza, si spinge fino alla sua stessa essenza più profonda, quella religiosa.
Avendo ben presente e chiaro un tale quadro e se vogliamo servircene per affrontare uno studio sull’inquietudine di Fernando Pessoa, tanto in termini generali, quanto, e soprattutto, con riferimento all’aspetto religioso, d’immediato sorge l’interrogativo su quale sia o possa essere la migliore angolazione da cui osservare tale suo stato d’animo: da un’angolazione psicanalitica o filosofica? Di primo acchito, l’angolazione psicanalitica sembrerebbe la migliore, e ciò in considerazione del presunto squilibrio mentale che lo stesso Pessoa si attribuiva, peraltro procurandogli non pochi tormenti, ma anche, grazie in particolare alla sua eteronimia (poco importa se in parte deliberata o se del tutto spontanea e sincera), un’eccelsa e singolare fecondità letteraria. A un tempo, tuttavia, occorre sottolineare come l’angolazione psicanalitica comporti una “visuale” parziale o, quantomeno, non completa della “condizione inquieta” di Pessoa. Specificatamente proprio riguardo alla sua “inquietudine religiosa”, per la quale l’angolazione filosofica sembrerebbe la più appropriata, se pensiamo che la religione, per essere sinonimo di credenza e culto, di sentimento e legame, spinge alla riflessione e all’agire etico, senza per questo pervenire, almeno con riferimento a Pessoa, a “soluzioni definitive”, poiché – come ben sappiamo – in Pessoa nulla o quasi nulla è “definitivo”, per essere la sua “ricerca” un lungo cammino fatto di domande, postulazioni e dubbi irrisolti e non certamente di risposte.
Altro interrogativo importante – a prescindere dal punto di angolazione o contesto scelti per procedere all’osservazione e allo studio dell’inquietudine pessoana, quella religiosa nel caso di specie – è l’interrogativo che si lega al tipo o ai tipi di categoria che caratterizzano o dovrebbero caratterizzare lo stato d’animo inquieto in Fernando Pessoa.
Ad esempio, la sua inquietudine si riconduce alla sola consapevolezza dell’incompletezza e della fallacia dell’uomo, nonché della perdita e dello scorrere inesorabile del tempo? Se così fosse, siamo nelle condizioni di misurare l’intensità di tale consapevolezza, il cui limite estremo, in una società tecnica e materialista incapace di svelare la verità, conduce alla perdita di scopo e senso, a quel nichilismo che tutto assorbe, consuma, inghiotte? Tanto i concetti di individuo, identità e libertà, di storia e politica, quanto i concetti di religione ed etica? E ancora, dando per scontato che, se non proprio la volontà, quantomeno il tentativo di “sconfiggere” tale “nullismo” è presente in Pessoa, da dove lui riesce o riuscirebbe ad attingere motivazioni e forze per farlo?
Indiscutibilmente sono interrogativi alquanto complessi che già comporterebbero una difficoltà e uno sforzo notevoli per chiunque volesse affrontarli nella loro completezza in un saggio. A maggior ragione risulta assolutamente impensabile il farlo nel corso di un breve articolo. Sicché, mi limiterò a riferire le principali argomentazioni su cui si basa la mia analisi relativamente a tali interrogativi, rimandando l’esposizione dettagliata a un’altra occasione.
Mi trovo assolutamente d’accordo con il critico colombiano Jerónimo Pizarro allorquando, in un suo articolo di una quindicina d’anni fa, pubblicato in «Leituras. Revista da Biblioteca Nacional», nell’affrontare il tema del genio e della follia in Fernando Pessoa e, contestualmente a esso, l’opportunità di «non separare il “letterario” dallo “scientifico”», afferma:
«Il caso Pessoa è anche un caso d’incomprensione, che viene trattato come un modello e messo da parte. Oppure viene trattato talmente con tanto rispetto che possiamo solo consacrarlo» [PIZARRO, 2004-2005: 4 e 10].
Poiché non è nelle mie intenzioni percorrere né l’una né l’altra “strada”, andrò a circoscrivere le mie interpretazioni, in modo da non invadere campi – come quello della psichiatria principalmente – i quali, oltre a non rientrare nelle mie competenze specifiche, esulano non solo dall’obiettivo di questo mio breve articolo, ma anche e soprattutto dall’impostazione che mi sono proposto di seguire.
Il mio intento è quello di giungere a comprendere l’inquietudine religiosa pessoana indagando non quel che “non appare”, il sottostante – ossia, l’iniziatico e l’occulto in particolare – ma quel che “appare”, il sovrastante, quel che può essere ritenuto immanente. Cosicché, per poter procedere secondo tale impostazione, occorre seguire Pessoa prendendo in esame parti della sua opera. All’interno della quale, tuttavia, sono dell’avviso che quella poetica meno si adatti allo scopo, non fosse altro perché una cosa è quel che lui da poeta pensa, altra cosa è quel che lui sempre da poeta sente: tipica caratteristica del grande poeta quale Pessoa è, ma che – secondo la mia opinione, almeno – a volte può generare confusione, dubbi, difficoltà interpretative. Pertanto, volendo analizzare nel profondo la sua inquietudine religiosa, è mia convinzione che occorra prestare un’attenzione maggiore alle sue pagine diaristiche, al suo epistolario, ad alcuni suoi articoli e appunti e scritti frammentari che – come ben sappiamo – non di rado si riportano a progetti di studio iniziati e mai portati a compimento, inclusi anche varie annotazioni de Il ritorno degli dei di António Mora e del Libro dell’inquietudine di Bernardo Soares.
Proprio nella parte inziale di un’annotazione – peraltro molto conosciuta e citata – del Libro possiamo leggere:
«Appartengo a una generazione che ha ereditato l’incredulità nel fatto cristiano e che ha creato in sé l’incredulità in tutte le restanti fedi. I nostri padri avevano ancora l’impulso a credere, che trasferivano dal cristianesimo in altre forme d’illusione. […]
«Tutto questo noi lo abbiamo perso. […] Ogni civiltà segue la linea intima di una religione che la rappresenta: passare ad altre religioni vuol dire perdere questa, per poi perderle tutte.
«Noi abbiamo perso tanto l’una quanto le altre.
«Cosicché, ognuno di noi è rimasto abbandonato a se stesso, nella desolazione di sentirsi vivere. Un’imbarcazione parrebbe essere un oggetto il cui fine è navigare; ma il suo fine non è tanto navigare, quanto raggiungere un porto. Noi ci siamo trovati a navigare senza avere idea del porto cui approdare. Cosicché, siamo andati ripetendo, in una versione dolorosa, l’avventurosa formula degli argonauti: navigare è necessario, vivere non è necessario» [PESSOA, 2010: 142-143 (142)].
Sono affermazioni, come altre dello stesso tenore sparse nei suoi innumerevoli scritti frammentari, che non lascerebbero prospettare nulla di positivo riguardo al concetto di Dio in Pessoa.
È noto come egli si sia sempre espresso negativamente contro la Chiesa Cattolica e, di conseguenza, contro il Papato di Roma, da lui ritenuto usurpatore di una conoscenza che opprime invece di liberare. Ciononostante, poiché erede dell’Occidente Cristiano (ben sappiamo, peraltro, che nel corso di vari momenti della sua vita – perfino nell’anno della sua morte, come riportato nella Nota biografica del 30 marzo 1935 – ha avuto modo di definirsi «cristiano gnostico») Fernando Pessoa – nelle parole del filosofo e teologo portoghese Samuel Dimas
«non è estraneo alla posizione del Cristianesimo, secondo la quale non si può fare del sapere umano, del sapere finito delle scienze, qualcosa di assoluto, capace di rispondere a tutto. Le vere virtù dell’uomo si basano su quel che emoziona, ossia, sulla dimensione di chi crede, ama e spera. Qualcosa che non è irrazionale ma sovra-razionale» [DIMAS, 1998: 20].
Assolutamente convincenti – a mio avviso – tali parole di Samuel Dias e che trovano conferma in varie annotazioni o testi frammentari filosofici pessoani. In uno di essi, manoscritto e datato 1914, possiamo leggere:
«Dio è il senso verso cui tendono tutte le intelligenze che governano questo mondo contro la volontà satanica della sua materia inerte. Dato che il punto verso cui tendono già esiste, perché il tempo è un’illusione, Dio è; dato che tendono all’assoluta Perfezione, Dio è la Perfezione assoluta; dato che tendono alla Suprema Bellezza, Dio è la Bellezza Suprema. L’Universo è già dove sarà, e già questo è Dio» [PESSOA, 1994: 110].
Nel mettere a confronto tale frammento e quello citato poco prima ci ritroviamo, com’è ovvio, di fronte a due posizioni divergenti riguardo al concetto di Dio, la qualcosa, tuttavia, conoscendo il “soggetto Pessoa”, non deve e non può meravigliarci. Difatti, come ha avuto modo di mettere a fuoco il noto critico portoghese Jacinto do Prado Coelho, tutta l’opera di Fernando Pessoa contiene indizi di un dramma che procede dalla convergenza, nello stesso uomo, di un inesorabile scetticismo e un profondo e torturante desiderio di Assoluto [COELHO, 1990: 12].
Pertanto, non si può dubitare che l’inquietudine religiosa sia il cardine propulsore dell’intera opera di Fernando Pessoa, com’è dimostrato, peraltro, da una sua preghiera manoscritta, probabilmente del 1912, vale a dire dell’anno in cui si sarebbe fatto conoscere come scrittore. In essa chiede al Signore,
«che è il cielo e la terra, che è la vita e la morte», di dargli «l’impulso a servirlo e ad amarlo. […] vista per vederlo sempre nel cielo e sulla terra, orecchi per udirlo nel vento e nel mare, e mani per lavorare in suo nome»; e che lo renda «puro come l’acqua e alto come il cielo».
Per poi concludere, alla fine della preghiera, con un angosciato «Signore, liberami da me stesso!» [PESSOA, 1966: 61-62 (61)], che ricorda molto da vicino la formula discendente dall’antica liturgia cattolico-mozaraba – formula che si ritrova anche in Sant’Agostino (Confessioni I, 5-6) – «Ab occultis meis munda me, Domine», ossia, «Dei miei peccati occulti mondami, oh Signore!».
Bibliografia di riferimento
– COELHO, Jacinto do Prado, 1990 (10.ª edição). Diversidade e Unidade em Fernando Pessoa. Lisboa, Verbo.
– DEMETRIO, Duccio, 2009. [Intervista di Graziella Arazzi] Filosofia inquieta o inquietudine dei filosofi. In http://www.circoloinquieti.it/filosofia-inquieta-o-inquietudine-dei-filosofi-intervista-a-duccio-demetrio/
– DIMAS, Samuel, 1998. A Intuição de Deus em Fernando Pessoa. 25 Poemas Inéditos. Lisboa, Edições Didaskalia.
– PESSOA, Fernando, 1966. Páginas Íntimas e de Auto-Interpretação. Textos estabelecidos e prefaciados por Jacinto Prado Coelho e Georg Rudolf Lind. Lisboa, Edições Ática.
– PESSOA, Fernando, 1994. Obras Completas de Fernando Pessoa. «Textos Filosóficos». Estabelecidos e prefaciados por António de Pina Coelho. Lisboa, Edições Ática: Volume II.
– PESSOA, Fernando, 2010. Edição Crítica de Fernando Pessoa. Volume XII. «Livro do Desasocego». Edição de Jerónimo Pizarro. Lisboa, Imprensa Nacional – Casa da Moeda: Tomo I.
– PIZARRO, Jerónimo, 2004-2005. Fernando Pessoa: o gênio e a loucura. In «Leituras. Revista da Biblioteca Nacional» [Lisboa], S. 3, n.os 14-15: 1-10.
[Questo articolo è stato per la prima volta pubblicato in portoghese nella rivista cartacea «Nova Águia – Revista de Cultura para o Século XXI» (Sintra – Portogallo), N. 15 – 1° Semestre 2015, pp. 34-37.
Tutte le traduzioni dal portoghese, sia dei testi pessoani che dei riferimenti critici, sono a mia cura].