«Sono, gli sforzi di noi sventurati,
sono, gli sforzi nostri, gli sforzi dei Troiani.
Qualche successo, qualche fiducioso
impegno; ed ecco, incominciamo
a prendere coraggio, a nutrire speranze.
Ma qualche cosa spunta sempre, e ci ferma.
Spunta Achille di fronte a noi sul fossato
e con le grida enormi c’impaurisce.
Sono, gli sforzi nostri, gli sforzi dei Troiani.
Crediamo che la nostra decisione e l’ardire
muteranno una sorte di rovina.
E stiamo fuori, in campo, per lottare.
Poi, come giunge l’attimo supremo,
ardire e decisione se ne vanno:
l’anima nostra si sconvolge e manca;
e tutt’intorno alle mura corriamo,
cercando nella fuga scampo.
La nostra fine è certa. Intonano, lassù,
sulle mura, il lamento funebre.
Dei nostri giorni piangono memorie, sentimenti.
Pianto amaro di Priamo e d’Ecuba su di noi.»
Sono i versi splendidi di Troiani, una delle poesie cui deve la fama (insieme ad altre poche come Itaca e Aspettando i barbari) il poeta greco Costantino Kavafis (1863 – 1933). Nato da genitori greci ad Alessandria d’Egitto, che costituì il centro del suo mondo e da cui non si allontanò se non per pochi anni nell’adolescenza e per rari viaggi, Kavafis condusse vita appartata e fu impiegato presso il Ministero dei Lavori pubblici. Conobbe anche Giuseppe Ungaretti che così lo rievoca: “a volte, nella conversazione lasciava cadere un suo motto pungente, e la nostra Alessandria assonnata allora in un lampo risplendeva lungo i suoi millenni” (in Poesie a cura di Filippo Maria Pontani).
La bellezza dei corpi e la loro caducità
Kavafis è autore di 154 poesie scritte tra il 1891 e il 1933 e stampate in piccoli opuscoli e addirittura su fogli volanti diffusi privatamente. In esse canta la bellezza dei corpi e il piacere dell’amore sessuale, la «bruciante voluttà», che si coglie fugacemente all’interno di povere taverne o di misere alcove, ma soprattutto la caducità di quei corpi e di quei piaceri che la poesia attraverso il ricordo riesce per un po’ a ravvivare: «Non li ho trovati più – così presto perduti… /i poetici occhi, quel pallido / viso… nell’annottare della via… / non li ho trovati più – conquistati così, / per sorte, e li lasciai così facilmente andare. / Poi li bramai febbrilmente. Gli occhi / poetici, e quel viso pallido, e quelle labbra. / Non li ho trovati più» (Giorni del 1903); «Era volgare e squallida la stanza / nascosta nell’equivoca taverna. / Dalla finestra si scorgeva il vicolo, / angusto e lercio. Di là sotto voci / salivano, frastuono d’operai / che giocavano a carte: erano allegri. / E là, sul vile, miserabile giaciglio, / ebbi il corpo d’amore, ebbi la bocca / voluttuosa, la rosata bocca» (Una notte); «Dire vorrei questo ricordo… Ma / s’è così spento… quasi nulla resta. / lontano ai primi anni d’adolescenza, posa. / pelle di gelsomino… / E la sera d’agosto (agosto fu?)… / Ormai ricordo appena gli occhi. Azzurri, forse… / Oh, azzurri, sì, come zaffiro azzurri» (Lontano). Per Kavafis in verità il sesso non va al di là d’un fatto fisico e sentimentale, non rimanda ad una metafisica. La carnalità «è veramente il fulcro della vita e dell’opera del poeta» (Filippo Maria Pontani) e giova a temperare in qualche misura il grigiore esistenziale della nostra era crepuscolare.
Il senso della fatalità
Non è però nei versi dedicati ad amori omosessuali il meglio della sua poesia, bensì in quei versi in cui magistralmente adombra il senso della fatalità nelle vicende umane e della vanità dei nostri sforzi, che comunque vanno compiuti, come in Troiani. Il fato è solitamente drammatico. A volte, però, beffardo come in questa poesia: «Non si turbò Nerone, nell’udire / il vaticinio delfico: / “dei settantatrè anni abbi paura”. / Aveva tempo ancora di godere. / Ha trent’anni. Assai lunga / è la scadenza che concede il dio […] Nella Spagna, Galba / segretamente aduna le sue truppe / e le tempra, il vegliardo d’anni settantatrè» (La scadenza di Nerone).
Storia e poesia
Leggere le poesie di Kavafis è un po’ come tuffarsi in pagine di storia greco-romana e bizantina. Spesso, bisogna dirlo, la prosa prevale sulla poesia. In ogni caso l’interesse per la storia e per le vicende di alcuni personaggi, alcuni dei quali fittizi, ma calati in un preciso contesto storico, costituisce un pretesto per riflettere sulla vita umana dominata da un destino ineluttabile. L’ellenismo è la cornice culturale in cui si svolgono le vicende storiche, «con una predilezione per gli aneddoti marginali e i personaggi minori, nei quali egli si cala traendone, non di rado con un intento gnomico, riflessioni e suggestioni memorabili […] Aspettando i barbari, la poesia più nota di Kavafis (tradotta anche da Montale), mescolando lo smarrimento di un impero agonizzante all’inutile attesa di una palingenesi barbarica, simboleggia una condizione storica e spirituale che si ripete nel tempo fino ai nostri stessi giorni» (Mario Andrea Rigoni).
Itaca
In Itaca, scritta nel 1911, risuona l’eco della saggezza latina, del carpe diem di Orazio: «Quando ti metterai in viaggio per Itaca / devi augurarti che la strada sia lunga, / fertile in avventure e in esperienze. / I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere, / non troverai tali mostri sulla via, / se il pensiero resta alto e un sentimento / fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. / Né Ciclopi o Lestrigoni né l’irato Nettuno /incontrerai se non li porti dentro / se il cuore non li drizza innanzi a te. / Devi augurarti che la strada sia lunga. / Che i mattini d’estate siano tanti / quando nei porti – finalmente e con che gioia – / toccherai terra tu per la prima volta: […] Itaca ti ha dato il bel viaggio, / senza di lei mai ti saresti messo / in viaggio: che cos’altro ti aspetti? / E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. /
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso / già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.»
Il poeta invita a non affrettarsi nel viaggio, a godere le gioie della vita, a non rinunciare a conoscenze e ad avventure. Itaca è l’inizio e la fine di quel viaggio che ogni uomo, come il leggendario Ulisse, compie e che è poi la sua vita. È il viaggiare che conta, suggerisce il poeta, non l’approdo.