«Nel 1980 l’Iri controllava circa mille società per azioni, con oltre mezzo milione di dipendenti. In un certo periodo esso fu il maggior gruppo industriale del mondo, escludendo gli Stati Uniti. Per fatturato globale, nel 1993 l’Iri si collocò al settimo posto nella classifica delle maggiori società mondiali. Nel 1980 aveva raggiunto, con 556.659, il massimo di dipendenti. Il ruolo nei grandi affari internazionali che l’Italia si era costruito non si era sviluppato soltanto nell’Est e nel Sud del mondo, ma si era esteso ormai all’economia globale, partendo dal settore vitale del petrolio. Da qui partì l’offensiva neoliberista per piegare e riprendere il controllo del sistema economico italiano da parte dei gruppi esteri di potere. Nel 1992 l’Iri fu trasformato in società per azioni e cessò infine di esistere nel 2002. La privatizzazione del gruppo con il passaggio del suo controllo in mani di azionisti privati dette un significato più chiaro all’operazione e all’intero fenomeno portando l’Istituto completamente al di fuori di ogni controllo pubblico. Un successo, questo delle azioni di destabilizzazione politica e di marginalizzazione economica dell’Italia, che ha costituito la caratteristica del modo di operare delle politiche neoliberiste della globalizzazione». La drammatica crisi sanitaria dei nostri tempi ha fatto tornare d’attualità l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, ed è difficile descrivere la sua parabola meglio degli economisti Nico Perrone e Bruno Amoroso, dal cui volume Capitalismo Predatore è tratta la citazione.
Questo imponente istituto, simbolo dell’economia mista italiana che aveva fatto scuola a tutto il mondo, fu per decenni un pilastro dello sviluppo della nazione, allevando una classe manageriale competente di cui beneficiò l’intero tessuto sociale e contribuendo a rafforzare la proiezione internazionale italiana, che negli anni ’80 veleggiò tra il quarto e il quinto posto mondiale tra i paesi industrializzati. Certo, il rovescio della medaglia furono l’eccessiva burocratizzazione e le crescenti difficoltà dettate dallo scenario bloccato della partitocrazia del dopoguerra, con il suo triste corollario di corruzione e clientelismo. Cionondimeno, l’Iri era un pezzo importante della storia e della struttura sociale italiana, all’insegna di quel «primato della politica» che fu bruscamente spazzato via negli anni ’90. Crollato il Muro di Berlino, il neoliberismo si fece strada quale modello globale e senza rivali: la storia era finita, disse qualcuno.
All’atto pratico questo significò la fine di una classe dirigente legata, con i suoi mille difetti, a logiche “sovrane” (Craxi in primis) e l’inizio del soffocante predominio della finanza descritto tra gli altri da Tremonti in volumi come Bugie e Verità o Mundus Furiosus. Da qui partì la drammatica perdita per l’Italia delle sue peculiarità economiche (si rileggano in proposito gli articoli economici della Costituzione improntati alla collaborazione di classe, alla programmazione, alla funzione sociale della proprietà) attraverso quella «riforma costituzionale» nascosta che rappresentò il Trattato di Maastricht, come acutamente scrissero Giano Accame e il giurista Guarino. Il patrimonio industriale pubblico, che aveva sopperito alle mancanze di investimenti dei grandi interessi privati italiani e a cui si erano saldate proficuamente una serie di dinamiche Pmi, venne smantellato nel corso di pochi anni, come ci dicono ancora Perrone e Amoroso: «Negli anni Novanta sono state privatizzate tutte le aziende statali nel settore dell’acciaio e in quello alimentare. Si è ridotto perfino il controllo statale in importanti settori strategici, quali l’elettricità, le telecomunicazioni, il petrolio, i prodotti chimici, i trasporti. In quegli stessi anni Mario Draghi si trasferisce dal Fondo monetario internazionale al Tesoro con il compito di riorganizzare il sistema bancario italiano sul modello dei nuovi indirizzi delle banche e della finanza speculativa statunitense (Goldman Sachs)».
La fine di un modello sociale
Nel momento di massima “sbornia” progressista ed europeista, pochissimi si accorsero dei rischi che un cambiamento così avventato e improvviso nascondeva: Gaetano Rasi, Marcello Veneziani, il deputato di An Michele Rallo e il tecnico Antonio Venier, che firmò un raro volume dal titolo Il Disastro di una Nazione (con prefazione di Craxi dall’esilio tunisino) in cui scrisse: «Tenuto conto della loro funzione portante nell’ambito del sistema economico italiano, la “smobilitazione” delle aziende di Stato avrà conseguenze gravissime per il futuro dell’economia italiana. La liquidazione del deprecato “Stato imprenditore e banchiere” significa di fatto la liquidazione della grande industria ed il controllo straniero sul sistema del credito». La disciplina pubblica del credito è un principio costituzionale, ma troppo spesso la politica se ne è dimenticata, allo stesso modo degli articoli che parlano di tutela della famiglia o difesa della Patria.
Facile collegare come parte integrante di queste dinamiche la demolizione dello Stato sociale degli ultimi 30 anni in nome del modello anglosassone (a cui l’ex Pci si omologò rapidamente) e in cui l’immigrazione incontrollata ha giocato, e gioca, un ruolo importante, come riconobbe Venier ancora una volta in anticipo sui tempi: «Il lavoratore flessibilissimo è l’immigrato dei paesi del “terzo mondo”, e lo sta diventando il giovane italiano, dopo qualche anno di disoccupazione». E ancora: «La mobilità del capitale attribuisce ai “masters” un vantaggio negoziale enorme sui “workers”, riducendo il potere contrattuale di questi ultimi e trasformandoli progressivamente in “slaves”, soprattutto in tempi di crisi finanziarie», scrisse Bagnai. Dinamiche riconosciute anche da autori di ispirazione marxista come Costanzo Preve e Gianfranco La Grassa.
Fatte queste considerazioni, e constatata la crisi economica e valoriale in cui siamo immersi, vale la pena ricordare l’origine dell’Istituto che può ancora fornire utilissimi spunti, se intelligentemente adeguati ai tempi. La guida dell’Iri fu Beneduce, un tecnico raffinato di origine socialista, che non aveva neanche la tessera del Pnf. Quest’uomo, insieme a fidati dirigenti come Menichella, Paronetto e Saraceno, che saranno protagonisti anche nel dopoguerra, scrisse pagine importanti della nostra storia dando un impulso decisivo alla modernizzazione italiana, creando le Banche di Interesse Nazionale e mirando a sganciare la finanza dall’industria. La legge bancaria del 1936, che separava banche commerciali da banche d’investimento e abolita guarda caso negli anni ’90, fu preparata e discussa dall’Iri. Anche le Corporazioni (organi dello Stato che riunivano datori e lavoratori dei diversi rami produttivi) parteciparono al dibattito, e non sembra strano perché «l’attività di regolamentazione dello Stato venne vista come la creazione di condizioni perché si realizzasse, nei rapporti sociali aziendali e extra-aziendali, un patto corporativo tra capitale e lavoro», come hanno scritto Mutti e Sagatta ne La borghesia di Stato. Le idee di programmazione e di coltivazione di una classe dirigente pubblica di grande competenza, attraverso scuole di alto livello animate da uno spirito comunitario che abbracci passato e presente della nazione, risultano di un’attualità straordinaria, e si faticano a comprendere le remore politiche in questo senso.
Lavoro, formazione, sviluppo. La necessità di un’Industria Nazionale
D’altronde, come risulta dalla lezione di autori come List, Serpieri e Gullo, un certo grado di controllo statale dei settori strategici è vitale per le nazioni che vogliono mantenere una propria indipendenza dai concorrenti esteri, nello scenario di una corradiniana «lotta di classe internazionale» che non accenna a finire. Si vedano ad esempio le linee guida egemoniche a stelle e strisce; le politiche “invasive” della Cina; l’aggressione anti-italiana della Libia (2011) promossa da Francia e Inghilterra; le continue ingerenze mediterranee ai nostri danni; i bastoni tra le ruote che ci mettono costantemente gli “amici” dell’Ue o infine le tante acquisizioni di eccellenze italiane da parte di paesi asiatici o europei come la Germania. Mentre la politica italiana subisce l’ennesimo commissariamento (dopo Dini, Ciampi, Monti) con l’ascesa al potere di Draghi, proprio l’uomo che contribuì in maniera significativa allo smantellamento dell’Iri e che oggi parla beffardamente di “ricostruzione nazionale”, risulta evidente l’urgenza di ripensare invece tanti dogmi economici e affermare le ragioni dello Stato nazionale. Il tutto al fianco della riscoperta dei borghi, dei territori, dei distretti industriali e di temi come l’innovazione e la partecipazione (art. 46 della Costituzione). Nel volume l’Italia del Futuro dell’Istituto «Stato e Partecipazione», Filippo Burla ha descritto un complesso progetto volto a creare un “Iri 2.0” (denominato In – Industria Nazionale), un istituto cioè di diritto privato, ma di proprietà pubblica, capace di coordinare le eccellenze industriali nostrane rimaste (Eni, Enel, Fs in primis) e promuovere lavoro, formazione e sviluppo. Di piani simili, d’altronde, hanno parlato anche insospettabili come Il Sole 24 Ore o l’Eurispes. Quando le classi dirigenti italiane si vorranno svegliare e tornare a puntare sullo spirito comunitario, sul patriottismo e sul ruolo dello Stato in economia si spera solo non sarà troppo tardi.
*Istituto «Stato e Partecipazione»