La difficile identificazione storica della “classe”, rispetto a scenari sociali mutevoli e tutt’altro che omogenei, e l’oggettiva impossibilità a fissarne i tratti distintivi hanno, con il tempo, “usurato” la strumentalità delle analisi marxiste, mentre l’aspettativa rivoluzionaria è andata perdendo le sue ragioni di fondo, subendo pur essa le trasformazioni economiche, tecnologiche e quindi sociali che i mutati scenari produttivi e culturali hanno inevitabilmente creato.
Oggi il conflitto sociale ha perso i tratti di classe, che lo avevano ideologicamente segnato, per assumere quelli del confronto/scontro d’interessi all’interno di un quadro di valori di riferimento sostanzialmente condiviso dalle parti.
Sono insomma scomparsi i fattori radicalmente antagonistici, propri di concetti ancorati alla “metafisica storica” di derivazione marxista, facendo emergere sul terreno della prassi (dell’organizzazione del lavoro, della ridistribuzione degli utili, della partecipazione, del ruolo delle categorie organizzate) le concrete dimensioni del confronto.
Il confronto sociale, come estremo strumento di emancipazione dei ceti subordinati e di sopravvivenza elementare, fatalisticamente determinato dal sistema di produzione capitalista, ha così assunto delle caratteristiche nuove, slegate dalle vecchie concezioni classiste.
Intanto perché non è più vero che – come dichiarava il Manifesto del Partito Comunista – “i proletari non hanno da difendere nulla di proprio”, né che lo sviluppo socio-economico ha portato alla dequalificazione sociale, alla creazione per i lavoratori di una “classe unica”, ad un operaismo diffuso ed omogeneo.
L’emergere di nuovi soggetti sociali, di nuove professioni e competenze, ha favorito, al contrario, una diversificazione dei ceti lavorativi, una loro “sproletarizzazione”, mentale ed operativa, ed una richiesta di corresponsabilizzazione nelle scelte e nelle gestioni aziendali.
Ciò è accaduto, in modo significativo, dentro e fuori la fabbrica, dentro e fuori il mondo operaio, attraverso un processo di mutazione, non solo politico-sindacale, né esclusivamente funzionale, quanto antropologico-culturale.
Sono perciò diversi i “soggetti della partecipazione” e diversi per mentalità e ruolo svolto gli operai contemporanei rispetto al passato. Sono diversi rispetto alle storiche “certezze” delle generazioni che li hanno preceduti sulla via dell’ “unità dei lavoratori” e della “coscienza di classe”, intesa – per dirla con Lenin (Sui sindacati) – come “comprensione del fatto che l’unico mezzo per migliorare la propria situazione e ottenere la propria liberazione è la lotta contro la classe dei capitalisti e dei proprietari delle grandi fabbriche e stabilimenti”.
Sono diversi gli operai d’oggi, ma anche – non nascondiamocelo – sostanzialmente più soli, “frantumati” pur essi dall’onda lunga di quello che si è configurata come l’epoca dell’”individualismo di massa”, che ha spogliato il corpo sociale e l’Uomo di ogni “armatura” etica e spirituale, lasciandolo alla mercé di mode surrogatorie e passeggere, ma sempre più “inconsapevole” delle sfide in atto, sfide etiche e socio-economiche insieme.
“La rivoluzione o sarà morale o non sarà” – scriveva Charles Péguy agli inizi del Novecento, mentre sulla stessa via Georges Sorel si interrogava intorno all’ideale di giustizia, inteso come “rispetto spontaneo e reciprocamente garantito della personalità umana” e sull’essenza di un socialismo dalle forti assonanze etiche, capace di “renderci più coscienti dell’ingiustizia che colpisce l’individuo”, anche se “non tocca i nostri interessi”.
A differenza di Marx, Sorel non solo vedeva nell’etica una dimensione decisiva dell’esistenza, ma annetteva grandissima importanza alle questioni morali, viste non già come un recupero meccanicistico di esperienze appartenute al passato, ma in quanto proiezione presente e futura, realizzazione autentica e vissuta della “nuova società”, costruita grazie ad un proletariato libero non solo economicamente ma anche eticamente dagli egoismi della società liberal-borghese.
Aldilà di ogni limitante determinismo materialistico, nella visione soreliana la dimensione morale dispiega pienamente il suo fondamento autonomo, coniugandosi, nel contempo, con una storica volontà di cambiamento socio-politico. Un aspetto non esclude l’altro, il fine etico non annulla quello sociale: entrambi indirizzati a dare un’anima, un senso, un ordine ad una società spezzata. Una sfida che, ieri come oggi, mantiene incorrotto il suo valore.