A conti fatti, al di là dei miglioramenti social-giuridici che non erano arrivati, gli scioperi del 1981 avrebbero comunque segnato una prima importante, per quanto timida sterzata verso l’adozione di una modalità anche politica per la risoluzione delle controversie; certo, le bombe non sarebbero cessate ma senza dubbio il sacrificio di quei dieci uomini fu il primo, grande passo, verso il processo di pace che avrebbe poi avuto la sua storica conclusione nell’Accordo del Venerdì Santo del 10 Aprile 1998, entrato in vigore il 2 dicembre 1999: cessavano così quasi trent’anni di conflitto, costati la vita ad oltre tremila persone.
Il 10 aprile del 1998 il Good Friday Agreement, noto anche come l’Accordo di Stormont, verrà legittimato da un referendum tenutosi nell’isola (71% dei sì al Nord; addirittura 94 % del consenso in Eire) comportando una rinnovata devoluzione dei poteri, esercitati mediante una ricostituita assemblea locale, da eleggersi nel quadro di una rappresentanza proporzionale, venendo poi scelti gran parte dei ministri secondo il principio del consociativismo, affinché fosse assicurata ai principali blocchi elettorali dell’Irlanda del Nord, unionisti e nazionalisti, la partecipazione di entrambi nel governo della nazione.
Oltre al lato istituzionale, si sottolineava il rispetto dei ripristinati diritti civili (l’IRA si sarebbe definitivamente sciolta nel 2005) e la liberazione della stragrande maggioranza dei detenuti per reati “politici”: ciò che però continua a mancare, ad oltre venti anni dall’accordo e nonostante il conflitto nordirlandese sia ormai argomento di studio e di dibattito anche a livello accademico, è una sorta di commissione indipendente non settaria, che indaghi per portare alla luce i tanti misteri e i lati oscuri di certe dinamiche che esasperarono le differenze religiose e politiche per tenere sotto assedio una intera comunità, quella nord irlandese, che al di là della fede, era in realtà molto più legata e affine di quanto non si voglia ammettere, specialmente da un punto di vista sociale, visto che per altro tanto il nord, quanto il sud dell’Isola erano ancora alla fine degli anni ’70 caratterizzate dalle massicce migrazioni verso il resto della Gran Bretagna.
La cosa più triste, è che spesso a confrontarsi, a spararsi o a mettere le bombe che uccidevano soldati o peggio ancora civili innocenti, erano per l’appunto dei soldati o dei poliziotti che appartenevano alle classi più umili, mandati “in quella terra di rozzi incivili” che utilizzavano o si scontravano con altrettanti giovani, di estrazione sociale della working class, se non direttamente sottoproletaria che senza un futuro, aveva trovato nella lotta armata una specie di redenzione, un senso ad un’esistenza spesa tra un sussidio di disoccupazione, lavoretti saltuari o peggio ancora da emigranti e questo, valeva in buona parte anche per gli esponenti delle bande lealiste che venivano supportate, non soltanto ideologicamente o quantomeno non ostacolate con la stessa efferatezza dei nazionalisti: nessuno è riuscito mai seriamente a fare luce sulle interdipendenze tra il potere politico, gli apparati di sicurezza e il braccio armato impersonato dai gruppi paramilitari, utilizzati per fare il lavoro sporco, per destabilizzare delle aree, quelle nordirlandesi per l’appunto, che già di per sé soffrivano di cronici problemi sociali e che mantengono ancora oggi i loro strascichi, sommati alle profonde fratture ormai impossibili da risanare.
Lo Stato britannico non ha mai ammesso le sue responsabilità e non ha mai riconosciuto quanto il suo operato neo-coloniale abbia causato la morte di centinaia di innocenti e inermi: non mancano le inchieste, anche corpose, susseguitesi negli ultimi anni ma ciò che manca è una piena assunzione delle colpe che un regime di quel genere ha decretato; del resto, una lettera segreta del 1975 ha dimostrato come in un incontro dell’epoca, tra l’allora capo del Governo Harold Wilson e la Thatcher, in rappresentanza dell’opposizione, entrambi vennero in quell’occasione ufficialmente informati dal Segretario di Stato per l’Irlanda del Nord delle collaborazioni tra la RUC e i paramilitari dell’UVF.
In oltre, le autorità britanniche avevano ben chiaro, messo nero su bianco in un rapporto privato confidenziale dal titolo “Northern Ireland Future Terrorist Trends”, redatto nel 1978 ad opera del comandante dell’esercito britannico nell’Irlanda del Nord, tale James Glover, che l’IRA non sarebbe stata sconfitta di lì a breve ma che anzi, come avrebbe dimostrato il supporto logistico offerto addirittura a metà anni ’80 dalla Libia di Gheddafi, la stessa organizzazione paramilitare avrebbe aumentato i propri appoggi e sarebbe cresciuta: la scelta di aumentare la repressione, dando adito ad una nuova escalation, come fatto dal Governo durante gli anni della Thatcher, fu a conti fatti un grosso errore non soltanto politico ma anche tattico, una spirale di violenza costata la vita, di nuovo, a tantissimi innocenti.
Purtroppo, la connivenza avrebbe trasceso il periodo della “Lady di Ferro”: è il 1994, precisamente il 18 giugno, quando un commando di fuoco dell’UVF, composto da due uomini a volto coperto, fa irruzione nell’Heights Bar, piccolo pub nel villaggio di Loughinisland (Contea di Down) e apre il fuoco sui presenti, in quel momento impegnati a guardare la partita dei mondiali tra Italia e Irlanda (che, per inciso, gli Azzurri di Sacchi persero per 1-0 scatenando un fiume di polemiche ma questa è un’altra storia), uccidendo così a colpi di fucile automatico sei cattolici di nazionalità irlandese; anche in questo caso, nell’organizzazione di quello che è passato alla storia come “il massacro della coppa del mondo”, dinamica appurata anche nelle successive indagini, emerse che apparati della Polizia Nordirlandese mantennero un ruolo attivo, quantomeno nella decisione di non prevenire l’operazione, cercando poi di depistare quanto avvenuto.
Soltanto un mese più tardi, nel luglio 1994, l’IRA dichiarava finalmente e ufficialmente il primo vero storico cessate il fuoco, cui diede un reale seguito, impegnandosi lo Stato Maggiore repubblicano e i quadri dirigenti dello Sinn Féin (Gerry Adams e Martin McGuinnes) in una svolta clamorosa, senza se e senza ma, che avrebbe sbloccato il processo di pace, grazie al disarmo dei nazionalisti: per tutta risposa, numeri alla mano, il 1994 sarebbe risultato l’anno con il più alto tasso di omicidi perpetrati da militanti lealisti rispetto al ventennio precedente.
I fucili utilizzati nel massacro di Loughinisland facevano parte di un carico stoccato di contrabbando con il Sudafrica, arrivato nella cittadina di Glenanne, in un deposito ricavato nell’abitazione privata di James Mitchell (ex Ufficiale della RUC), una fattoria divenuta la base logistica della “Glenanne Gang”, una banda di paramilitari e agenti unionisti, salita agli onori della cronaca per le decine di attentati commessi: se mai ve ne fosse uno, la “Glenanne Gang” è assurta a simbolo della simbiosi che per lustri si era instaurata tra le frange più estremiste del lealismo unionista e gli apparati securitari del Regno Unito, e che poteva prosperare nelle immense “zone grigie” di quegli anni.
Di fronte alla realpolitik che ha egemonizzato il dibattito e che ha cercato di indirizzare le inchieste, è passata praticamente sotto silenzio, se non altro al di fuori dell’Irlanda, la possibilità tangibile che la giustizia potesse portare addirittura ad evitare il massacro di Derry: con lo scoccare dell’Operazione “Demetrius”, tra la sera del 9 e la mattina dell’11 agosto 1971, ben undici persone erano state uccise a sangue freddo a Ballymurphy, un piccolo ghetto nazionalista di Belfast Ovest e proprio da esponenti di quel Primo Battaglione di parà britannici che si sarebbe reso protagonista della “Domenica di Sangue” del 1972.
L’eccidio venne presto insabbiato da una rapida inchiesta interna della polizia, nonostante i tentativi disperati dei famigliari delle vittime, mentre il Ministero della Difesa si è a più riprese dichiarato incapace di identificare i carnefici; i parenti di Ballymurphy hanno comunque provveduto ad avviare una titanica azione legale contro lo stesso Ministero, i cui esiti apparivano fin dal principio scontati.
Tra passato e presente
Si dice spesso che nulla come il tempo sappia aggiustare le cose, che la memoria (o lo studio della storia, nella versione più “colta del detto”) sia il miglior antidoto affinché gli episodi non si ripetano; in realtà, neanche troppo di rado, avviene puntualmente il contrario, dapprima come tragedia, poi come farsa.
Ripensando a quella grande polveriera storico-politica e sociale che furono gli anni ’60 e ’70, ai sogni traditi, alle istanze di cambiamento mai seriamente supportate, è abbastanza iconico come alcuni luoghi, soltanto a nominarli, riesumino delle infinite scie di sangue, sgorgato dalla stroncatura delle lotte di popoli, istanze nazionali e sociali amalgamate radicalmente, fortemente ancorate nelle tradizioni anti-imperialiste e religiose.
Ecco, per l’Irlanda del Nord, nazione costitutiva del Regno Unito, con la quale i britannici si tenevano i cantieri navali di Belfast, mantenendo nel contempo saldo il controllo dei bracci di mare afferenti al Mar d’Irlanda, accesso per l’Atlantico; d’altronde, in quel tempo erano ancora la talassocrazia per eccellenza.
Che la Brexit possa redigere un nuovo capitolo nelle vicende dell’Isola, questo solo la storia e il tempo potranno dirlo: a noi, non resta che aspettare, proseguendo il percorso di studio della questione irredentista irlandese nelle Sei Contee.