In un film di John Carpenter, “1997, fuga da New York”, s’immaginava la Grande Mela come un enorme campo di concentramento, dove venivano rinchiusi malviventi di ogni specie, che fra i grattacieli in rovina davano vita ad una vera e propria Contro-società, con le sue gerarchie, le sue attività, le sue leggi e i suoi castighi. All’esterno – un esterno indefinito – vivevano “i buoni”, organizzati, s’immagina, alla maniera di tutte le “polis”, dediti alla sorveglianza delle mura e pronti a deportare “i cattivi” nell’immenso penitenziario all’aperto.
Sempre più spesso, abbiamo la sensazione che le distopie uscite nel passato dalla fantasia di spiriti visionari, si siano realizzate nei nostri tempi; un esempio per tutti: l’orwelliano “1984”. Naturalmente, le distopie si concretizzano in forme diverse da quelle immaginate dai loro autori: per restare a quella di Orwell, l’invadenza dei mezzi di comunicazione e controllo non fa capo a un solo Grande Fratello, la sua origine e ragion d’essere derivando dallo “spirito del tempo”, se non proprio da occulti centri di potere.
Così, la catastrofica visione di John Carpenter s’insinua nella nostra vita quotidiana, la avvelena, la modifica, la incupisce senza ostentare troppe evidenze, attenuata dalle continue mediazioni del Sistema Informativo, incaricato di rilanciare incessanti parole d’ordine che oscillano dal tranquillizzante al terrorizzante. E’ sempre più forte l’impressione di essere rinchiusi in un grande spazio sorvegliato, una specie di “Lazzaretto Italia”, nel quale ci troviamo non perché abbiamo infranto chissà quali leggi, non perché siamo malviventi incalliti, ma perché siamo pericolosi gli uni agli altri, con l’aggravante che ogni oggetto, ogni luogo, ogni situazione può accrescere il pericolo.
E come dietro le mura di quella “New York 1997”, come dentro i lager e i campi di concentramento che hanno funestato il 900, come dentro le riserve indiane (quanto diversi gli uni dagli altri questi spazi concentrazionari!), ci aggiriamo in una giungla di divieti e di regole. La storia delle civiltà è anche storia delle sue epidemie, eppure mai come in questa nostra era tecnologica, era del movimento, della velocità, della comunicazione, le nostre libertà quotidiane sono state compresse come oggi, che celebriamo il primo compleanno del “Covid-19” (o come ieri, nei confini dell’Impero Sovietico).
L’imposizione generale prevede il divieto di assembramenti, con poche, deplorevoli eccezioni: la calca nei vagoni della metro e sugli autobus, le folle nei supermercati e nei centri commerciali, e così via (ad esempio – apprendo da un amico – l’altro ieri il volo Alitalia Parigi-Roma era gremito).
In compenso, sono chiusi teatri e scuole, stadi e palestre: le leggi del business impongono ridicole manifestazioni agonistiche senza pubblico, come i mondiali di sci a Cortina e il campionato di calcio (ormai siamo abituati agli stadi di calcio vuoti, con conseguente snaturamento dello sport nato per il pubblico).
https://www.youtube.com/watch?v=SUamNaef77E&ab_channel=MelecuccheTV
Il lavoro nelle sue sedi naturali è sconsigliato, se non vietato (e si pretende di considerare “smart” quello che viene svolto fra le quattro mura di casa: a proposito, il bar di fronte, per contenere le perdite derivanti dalle limitazioni orarie, offre proprio ai beneficiari del “lavoro intelligente e furbo” la sua ospitalità e i suoi strumenti, s’intende, a pagamento).
Le relazioni sociali e sentimentali sono sconsigliate e mortificate, ancor prima di essere vietate: di questa deriva “distanziatrice”, di questa scuola e di questo lavoro da remoto, pagheremo le conseguenze, ancora poco indagate, negli anni a venire. E pagheremo – pagheranno gli interessati – la compressione di tutte quelle intimità adolescenziali oggi negate. Non è questa la prima pandemia della storia, ma è la prima che, oltre a provocare centinaia di migliaia di morti – e tralasciamo ogni polemica sui metodi di conteggio dei decessi da Covid – estende la sua nera onda lunga alle generazioni a venire, sia per gli effetti psicologici che per quelli economici e sociali. E tutto questo, a dispetto degli innegabili progressi tecnici, non solo in materia sanitaria: a conti fatti, con tutto il carico di incertezze e di ignoranze che grava sui vaccini, le contromisure sono le stesse dei cosiddetti “secoli bui”, vale a dire l’isolamento degli infetti, il blocco – ove possibile – delle frontiere e il distanziamento sociale. Fra le differenze, va annotata la connotazione laica della fede e l’ipostasi del Vaccino, unica fonte di luce e di speranza in quest’epoca di onnipervadente materialismo pratico. Insomma, siamo passati dal vagheggiamento platonico della “repubblica dei filosofi” alla cupa realtà della “repubblica dei virologi e degli epidemiologi”. E a loro, dopo averlo fatto con magistrati e uomini della grande finanza, la politica continua a cedere le sue ultime quote di sovranità.
Alla fine, con tutte le disfunzioni nelle forniture e nella somministrazione dei vaccini – con l’inevitabile sequela, soprattutto italiana, di corruzioni vere o presunte – e con tutta la fioritura di varianti del virus, ma anche con tutte le polemiche politiche ora anestetizzate sotto l’egida del nuovo “Uomo della Provvidenza”, ritorna lo spirito di tante distopie collocate nel futuro e invece realizzate nel presente, soprattutto sotto il profilo delle – perfino benedette! – limitazioni delle libertà. Nella fantasia cinematografica, fu possibile la “fuga da New York”. Lo sarà – e quando? – la fuga dal “lazzaretto Italia”?