Dieci giorni fa – meraviglioso mattino rischiarato sul Golfo di Napoli nel bel mezzo di una pandemia declinata a colori caldi – feci visita al professore Paolo Isotta nella sua superba dimora di Corso Vittorio Emanuele III. La luce del mezzogiorno dissipava la foschia marinara e giungeva nel salone pieno di antichità da un’intera parete di finestre ariose che scricchiolavano al calore primaverile di quella giornata. I quadri occhieggiavano solenni nelle cornici a guantiera, un allegro cagnolino oziava sui tappeti persiani, due gentili cameriere in livrea e crestina osservavano compunte lo svolgersi dei convenevoli prendendomi il cappotto ed il cappello. Un’immensa libreria tagliava in due l’appartamento volando verso il piano superiore su una scala dal guizzo modernista. Il professore mi fece strada verso i divani.
Conobbi Isotta in una bella sera d’estate meridionale, al Festival della Letteratura di Salerno, quando gli donai, dopo la presentazione del suo ultimo libro su Giuseppe Verdi, un mio recente volume sulle tradizioni e le simbologie del Natale popolare in Campania. Tutto iniziò e, credetti, che finisse lì. Fino a quando l’editore non mi comunicò di aver ricevuto una chiamata dal professore il quale lo pregava di fornirgli il mio recapito telefonico. Isotta mi contattò e mi espresse parole di grande stima e di vibrante partecipazione sul libro. Mi fece felice perché si capisce subito quando c’è verità di sentimenti. Dopo qualche tempo mi arrivò un messaggio nel quale il professore m’invitava a comprare una copia del Il Fatto Quotidiano: aveva curato una recensione del mio libro per la pagina culturale. Lo richiamai per ringraziarlo dell’onore che m’aveva fatto ed egli si schermì dicendomi: «Sono a Vostra disposizione per qualsiasi cosa. Ora avete i miei contatti, risentiamoci». Lo pregai di non darmi del Voi, quello spettava a me, ma non volle. Dopo qualche mese iniziai a scrivere la mia solita strenna natalizia che avrebbe avuto come tema il suono della zampogna nella tradizione musicale, nella letteratura e nell’arte. Pensai di chiedergli una breve nota da usare come introduzione e così feci. Il professore accettò malgrado gli impegni precisando con il suo proverbiale disappunto: «non ci sarebbe bisogno di alcuna prefazione. Ma perché voi ragazzi pensate che una prefazione possa aumentare il valore di qualcosa bello di per sé? Secondo: è inammissibile che il nome del prefatore sia nello stesso corpo di quello dell’Autore. Ma li vogliamo far ridere, questi polli? In basso, e molto più in piccolo, potete scrivere “Con una nota di Paolo Isotta”, ovvero, e secondo me meglio, “Con una postfazione di Paolo Isotta”: ripeto, il più piccolo possibile». Chiaramente disattesi all’assunto e pretesi che il nome venisse in copertina, sebbene più piccolo, e lo scritto trionfasse come introduzione e non già come postfazione. Dopo di allora la ’nferta natalizia (a Napoli le strenne si chiamano così) venne stampata col titolo di Tre sciùsce e s’abbuffava la zampogna per i tipi di Operædizione.
Fra zone arancioni e zone rosse, festività in ristrettezze sociali e presepi non mai goduti, passò il tempo e non potetti far visita al professore per recare la copia del volumetto stampato. Ho rimediato dieci giorni fa, come dicevo all’inizio. Isotta mi invitò a pranzo. Gli portai il libretto e una stampa antica del 1837 raffigurante il miracolo di San Gennaro, che mi parve tanto un’inezia di cui vergognarsi al cospetto degli splendori antiquari dello scrittore ma che egli apprezzò molto per la sua nota devozione al vescovo decapitato. Accomodati sui divani bianchi faccia a mare – il professore tutto in bordeaux con un vistoso anello da mignolo e delle lucenti scarpe inglesi, io educatamente in contemplazione malcelando la curiosità – c’accingemmo alla conversazione ma solo dopo che Isotta ebbe chiarito il punto sul pronome da usare. «Voi mi avete chiesto di darvi del tu: ho deciso di accettare. Va bene?». Parlammo di politica (io di sinistra, lui, credo, di destra), di letteratura, di Napoli, dei giovani, dell’arte, del Corriere. Più che parlammo, parlò. Nel senso che io so ascoltare se a raccontare è un gigante. Dopo l’aperitivo ci mettemmo a tavola e, fra cristalli e argenterie, porcellane e fiandra, gustammo un vero pranzo partenopeo a base di genovese. Ziti alla genovese, con bis doveroso, braciola e friarielli, mozzarella con goccia, pane casereccio: il tutto bagnato da un buon vino rosso. Il cibo suggerì gli argomenti e così spaziammo da Totò a Flaubert, da Roberto De Simone all’infinito di bellezza che la vista su Capri allargava nel cuore. «Non ci provare a scrivere un romanzo. Io non l’ho fatto mai, non ne sono capace. Dopo Manzoni e Flaubert non si possono più scrivere romanzi…».
Il professore mi regalò un suo libro sulla musica e gli animali con una dedica in lode del nostro primo incontro partenopeo. Purtroppo il primo e l’ultimo. E che possiamo dire ora? Ora che il critico non taglierà più le domande con la sua sagacia polemica e con il suo indomito ardore da signore napoletano? Ora che quest’Italietta sghemba è una verso mozzato e non sa più accettare la critica perché vive nell’eterno presente della mediocrità? Ora che siamo attanagliati dalle ipertrofie dei post e non vediamo le virgole fuori posto (e Isotta le virgole fuori posto le vedeva tutte dentro e fuori la pagina)? Non possiamo dire se non “lassamm’ fà à Ddio!” di averci regalato il professore, certi che pure il Padreterno, che, per chi ci crede, è napoletano come san Gennaro, non si priverà dell’acume istrionico e del rotacismo cortese del professore Paolo Isotta. Arrivederci, mai addio.
Bel ricordo, vibrante, denso, profondo.