In questi giorni le cronache estere ci regalano la notizia di una marea nera, dovuta ad uno sversamento di petrolio, localizzata in Thailandia. L’attenzione è focalizzata, oltre che sui turisti, le loro ferie rovinate e il disappunto che ne deriva, sui gravissimi danni ambientali e sul fatto che, nei prossimi anni, l’economia della regione sarà azzerata e i pescatori della zona finiranno sul lastrico. La compagnia petrolifera coinvolta, la Ptt Global Chemical, come spesso accade in questi casi, cerca di ridimensionare la questione, obbligata a dare spiegazioni perché la notizia è finita sui giornali di tutto il mondo. Siamo però di fronte ad un fenomeno frequente, dato che le perdite di petrolio, anche consistenti, si verificano tutti gli anni, mettendo a dura prova gli ecosistemi e le risorse marine.
L’opinione pubblica non è pienamente informata del problema, perché se ne parla solo quando, come nel caso thailandese o come quello del Golfo del Messico, nel 2010, coinvolge zone abitate o frequentate da occidentali. Succede però che in Alaska la situazione sia ormai critica e vicina a un punto di non ritorno, perché la lontananza da occhi indiscreti ha permesso alle compagnie petrolifere di agire totalmente incuranti di qualsiasi sistema di sicurezza, rendendo l’ambiente marino velenoso, tanto che all’inizio di quest’anno un’intera piattaforma è andata alla deriva, sfiorando un danno apocalittico. Anche in Cina gli sversamenti di petrolio sono frequenti e ben poco si sa della loro portata. Però nel 2010 e nel 2011 due gigantesche chiazze di greggio diedero del filo da torcere al governo (e ad alcune società statunitensi che operano in Cina), soprattutto perché mettere a tacere la stampa non fu semplice.
È inevitabile, poi, che condotta si ripercuote soprattutto in quelle zone dove il neocolonialismo la fa da padrone. In Africa, sul delta del Niger, ormai da decenni l’ambiente è stato cancellato, e la popolazione locale è obbligata a usare acqua nerastra per bere, lavarsi e far da mangiare, ammalandosi e morendo, oltre ovviamente a non avere lavoro, perché la pesca non è più possibile. Sulla questione è intervenuto l’Onu, condannando il comportamento di compagnie come la Shell le quali, però, non sembrano intervenire pienamente nonostante la recente accusa di “ecocidio” e una condanna da parte di un tribunale olandese.
@cescofilip