E’ opinione ampiamente veicolata dai media mainstream occidentali che la Corea del nord appartenga alla schiera dei paesi “cattivi”, sulla base dell’asserzione – altrettanto condivisa – secondo la quale quel regime è l’ultimo baluardo del comunismo mondiale. Dal punto di vista delle scienze sociali quest’ultimo dato – bilanciato in parte dalle narrazioni apologetiche dei pochi nostalgici rimasti del marxismo-leninismo – è esauriente per chi sia interessato a farsi un’idea senza incorrere nei rischi delle semplificazioni?
Edito dalla casa editrice “La Vela” nel 2019, “La rivoluzione ignota – dentro la Corea del Nord: socialismo, progresso, modernità” è una monografia di Federico Giuliani, complessa perché di taglio accademico ma, al tempo stesso, efficace e fondata sull’esperienza diretta di una realtà effettivamente impenetrabile.
Andrea Virga rileva già nella prefazione come diversi sistemi politici asiatici, da quelli comunisti a quelli democratico-liberali, siano accomunati da uno spiccato spirito patriottico, dall’elevata omogeneità socioculturale e dalla bassa presenza di immigrati residenti, provenienti in gran parte dai paesi vicini.
Il sistema politico
Il retaggio della rigida dominazione coloniale giapponese, la guerra civile dei primi anni cinquanta e la minaccia dell’imperialismo statunitense indussero i coreani a dotarsi di un sistema politico fondato su tre cardini, certificati dalla Costituzione del 1948: indipendenza, sovranità nazionale, sviluppo del socialismo.
La Repubblica Popolare Democratica di Corea è uno Stato socialista teso a “rafforzare la dittatura democratica del popolo”, contraddizione giustificata dal legislatore con la necessità di difendersi dai nemici interni ed esterni appellandosi a tutti i coreani, compresi quelli che avrebbero dato vita alla Repubblica del sud.
Pur essendo ammessa l’esistenza di altre formazioni politiche, il Partito del Lavoro ricopre da sempre un ruolo centrale in quanto strumento del potere reale dello Stato, legittimato da una classe operaia a lungo riconosciuta – a propria volta – come classe dirigente da parte di contadini ed artigiani, liberi professionisti e studenti, forze armate ed intellettuali.
La necessità che non solo le forze di estrema sinistra partecipassero alla rivoluzione democratica ed anti-imperialista era stata espressa dal suo leader e fondatore, Kim il-sung, artefice della riforma agraria, delle nazionalizzazioni delle medie e grandi industrie – allargate alle banche – e del potenziamento delle organizzazioni sociali, collante tra le masse popolari ed il Partito.
Oggi l’organo di potere di fatto più rilevante, il Presidente della Commissione di difesa nazionale, è anche Comandante Supremo delle forze armate e risponde all’Assemblea Popolare Suprema; quest’ultima, espressione di un rapporto fiduciario tra eletti e cittadini – che possono rimuovere i primi in ogni momento – e di un potere legislativo correntemente esercitato, in realtà, dal più ristretto Presidium, elegge il Presidente del Consiglio dei Ministri e quello della Suprema Procura. L’attività politico-amministrativa centrale è duplicata a livello locale, dove province, città e contee beneficiano di un certo grado di autonomia.
L’ideologia Juche
Nata durante la resistenza contro i giapponesi, assimilabile ai concetti di indipendenza ed autarchia (nel senso di autocontrollo prima che di autosufficienza economica), l’ideologia Juche traspone sul piano rivoluzionario una filosofia antropocentrica – alternativa sia all’umanesimo sia al sadae, la concezione basata sulla legittimità storica della subordinazione alla Cina – che individua nell’uomo un essere sociale creativo e cosciente, padrone delle proprie scelte ed orientato ad “essere artefice del proprio destino”.
Basata su quattro pilastri – politica, cultura, economia e difesa – essa ha identificato nel primo il settore più importante della vita sociale, realizzando la rivoluzione tramite un profondo lavoro di mobilitazione delle masse, l’alleanza tra le classi operaia e contadina, il perfezionamento di un sistema educativo che consentisse l’intellettualizzazione di fasce sempre più ampie della società.
Lontana dall’accezione consolidata in occidente, la democrazia viene interpretata come modalità che permette alle masse di gestire le proprie libertà, intese come capacità di autogoverno di soggetti politici autonomi e indipendenti; le masse popolari, unendosi in blocco sotto la guida degli operai, hanno individuato nel leader la guida politico-spirituale capace di esprimerne gli interessi e di renderle coscienti della missione dell’edificazione socialista.
Pur poggiando sul materialismo storico, su quello dialettico e sulla concezione gramsciana dell’intellettuale organico, il Juche ha progressivamente eliminato sia la separazione tra teoria e pratica sia le tracce “dannose” del formalismo e del dogmatismo marxista-leninista, configurandosi piuttosto come una sua originale declinazione adattata ai cambiamenti del contesto nazionale, in applicazione dell’assunto di Kim il-sung in base al quale “noi non facciamo la rivoluzione di un paese straniero, ma la rivoluzione coreana”.
Alle influenze di stampo sovietico si sono, quindi, sovrapposte sia le antiche culture asiatiche – le radici del confucianesimo e delle tradizioni locali emergono nei riferimenti al “buon governo” e nell’importanza riconosciuta al rispetto che la classe politica deve riservare alle masse popolari – sia le forti componenti maoista e nazionalista, quest’ultima funzionale al consolidamento dell’indipendenza e della sovranità.
La sistematizzazione filosofica del Juche si è accompagnata, in epoche recenti, al rafforzamento della linea politica del Songun (“primato militare”), che attribuisce la guida del governo ed un ruolo centrale nella società ai vertici delle forze armate, ridimensionando il peso degli operai; la sovrapposizione tra partito ed esercito come nuovo “servitore del popolo”, l’esaltazione dei padri della patria, l’ambizione di un significativo sviluppo economico e la spasmodica corsa agli armamenti confermano la mutazione del paese verso una forma di socialismo nazionale di stampo militare.
Il controllo statale dell’economia, giustificato dalle esigenze del processo di ricostruzione e pervasivo sia sotto l’aspetto ideologico che tecnico, non si è tradotto nell’abolizione della proprietà privata; il formale divieto dell’attività imprenditoriale è stato in gran parte eluso grazie ad alcuni espedienti legali. Kim Jong-un ha intensificato l’istituzione delle “zone economiche speciali”, all’interno delle quali vige una legislazione economica diversa rispetto a quella del resto del paese; l’apertura alle logiche del profitto, l’incremento degli investimenti stranieri e delle entrate dello Stato procedono di pari passo con la scalata sociale di una classe media dotata di un potere d’acquisto significativo.
Il sistema comunicativo
Strettamente funzionale a quello politico, il sistema comunicativo – ovviamente pubblico – è impermeabile sia in entrata che in uscita: in linea con i precetti ideologici del Juche, l’apposizione di filtri alle notizie risponde ad una logica paternalistica finalizzata a proteggere i cittadini dalle possibili contaminazioni esterne, garantire la continuazione del socialismo e la difesa delle “conquiste” ottenute nel corso degli anni.
Un mix di protezione, ferrea censura e propaganda – che esprime, con periodiche campagne di mobilitazione e pratiche pubblicitarie (vietate fino al 2002) gli ideali dei lavoratori, mostra ai cittadini utopie e grandi sogni, difende la cultura nazionale – sono le risposte finalizzate ad impedire le penetrazioni ideologiche avverse secondo un paradigma trasmissivo, non dialogico e poco incline allo scambio, in un contesto caratterizzato dall’assenza della sfera pubblica.
L’autore si sofferma sui tratti salienti dei canali di comunicazione, tradizionali e moderni: l’Agenzia di Stampa ufficiale dello Stato, portavoce delle istanze governative ed organo principale del Partito; la radio, che conserva un peso rilevante; la televisione e l’editoria, mercato attivo e fiorente seppur non libero; poster e manifesti che restituiscono l’immagine di una società organica, incentrata sul culto della personalità di un leader equiparato ad una divinità.
La rivoluzione digitale è un cavallo di battaglia del regime: la chiusura ad Internet così come concepito dagli occidentali è bilanciata dall’intranet coreano, un servizio gratuito che consente l’accesso ad una rete in cui tutto viene sottoposto al filtraggio governativo.
Ben lontana dall’essere governata da una classe dirigente irrazionale, incarnazione al contrario di una lucida realpolitik che riesce ad adattarsi ai repentini mutamenti delle società contemporanee senza stravolgere i valori fondamentali, la Corea del nord rispecchia nella lettura di Giuliani un laboratorio all’interno del quale si possono osservare le trasformazioni di un regime comunista dai tratti peculiari, la sua ibridazione con il potere militare e gli effetti di questi fenomeni sul suo sistema politico, sociale ed economico.
Una dittatura familiare anacronistica, stupida, spietata, obbrobrio del genere umano.