I giorni che dovrebbero rappresentare la dannazione in terra per Silvio Berlusconi e la “destra” legata alla sua sorte processuale sembrano invece martellare le fondamenta assai indebolite della sinistra italiana. Non solo l’inquietudine politica legata alle dinamiche “folli” (e suicide) del pre-congresso del Pd, ma proprio in termini simbolici ed etimologici la sinistra italiana continua a perdere colpi e, cosa più grave, interpreti. Basta prendere i due maggiori quotidiani per accorgersi quanto la crisi della cultura politica gauchista sia profonda e distribuita proprio sul piano dell’immaginario. Se il nostro Federico Callegaro si è occupato dell’intervista fiume in cui Francesco De Gregori, il cantautore dell’Italia «che resiste», sul Corriere della Sera ha preso una volta per tutte le distanze dalla sinistra politica («la mia sinistra si è persa»), su Repubblica, invece, è un’intervista a Massimo Cacciari a rappresentare un serio colpo all’identità stessa della cultura progressista.
Il filosofo e studioso del pensiero negativo, infatti, ha dato il colpo di grazia a partire dall’assist con il quale il quotidiano di Ezio Mauro sta tentando di dettare le parole d’ordine al partito di Epifani. «Dì qualcosa di sinistra», chiede la rubrica. E Cacciari “non” lo ha fatto riprendendo proprio un suo vecchio divertissement sul significato della parola: «La parola sinistra è segnata dal marchio dell’insufficienza, condannata da un destino inscritto nella sua stessa etimologia: sinisteritas significa inettitudine». E poi giù: «Chi si dice di sinistra oggi è un perfetto conservatore». E così via, in un percorso di destrutturazione del pensiero politico della sinistra dal dopoguerra ad oggi, a partire dal “totem” di Bobbio: «Nel suo sforzo di definire le basi di un “tipo ideale” di sinistra Bobbio ricorse all’idea guida di uguaglianza. Ma era una base disperatamente povera».
Anche per Cacciari però – pur nella disamina colta e filosoficamente appropriata – come per De Gregori, l’approdo “politico” post-comunista non è ben chiaro, resta nebuloso: un “altrove” che sa tanto di terzismo irrealizzato. Perché da Mario Tronti (padre dell’operaismo) a Mario Monti (interprete della tecnocrazia) il passo è lungo: ma sembra questo l’orizzonte di una sinistra culturale stanca delle velleità di quella politica. Come si è arrivati a questo tipo di fascinazione? Di fatto, per lo meno in Italia, la “confusione” è tutta targata anni ’90: quando la sinistra dei tecnici promosse privatizzazioni (o meglio svendite) e un “euro entusiasmo” che ha portato dritti al collasso del sistema Italia. Scelta che ha portato sì alla vittoria (due volte) ma anche a una confusione programmatica e culturale che non accenna a trovare sintesi: né neolaburisti né socialdemocratici.
Questo lo si riscontra nel duello tutto interno al Pd tra Matteo Renzi e Stefano Fassina: con il primo che propone (come del resto il premier Enrico Letta ) nuove privatizzazioni, tra cui anche Eni e Finmeccanica, come pacchetto anti-crisi, mentre il secondo si oppone al fatto che il debito vada ripagato con questa “moneta”. Stesso discorso rispetto al dualismo “giustizia” e primato della politica: con il Pd “lealista” costretto a tifare Berlusconi in Cassazione per tenere in vita le larghe intese. E che dire, poi, del fronte dei “diritti”? Anche qui il duello è totale: da un lato Laura Boldrini e il terzomondismo chic, dall’altro Luca Casarini (ex leader dei No Global) che ha attaccato duramente la sinistra che misconosce «i piccoli operai con la partita Iva».
Insomma, da Cacciari e De Gregori giunge la conferma che la cinghia di trasmissione di tradizione leninista si è inceppata proprio nel punto in cui la sinistra avrebbe dovuto produrre “prassi”. Un problema di identità, per dirla con Walter Siti che denunciava «il contagio», ossia l’imbarbarimento dei ceti popolari e borghesi al contatto con «l’assenza di futuro». O forse, semplicemente, una verità antropologica: la sinistra – al potere – non è tanto meglio degli altri. Figuriamoci che sarà senza Berlusconi.
@rapisardant