Mentre a reti unificate si continua a parlare del Covid – il quale non accenna a mollare la presa, anzi ora sembra persino rilanciare ripresentandosi nella temibile versione british – fa rumore il silenzio che avvolge tutto ciò che riguarda l’altra pandemia che affligge da decenni l’intero Occidente e che risponde al nome di neo-liberismo globalizzato. Perché tutti, in questi mesi, si sono prodotti nelle più disparate analisi sulle origini e sulla diffusione del virus, ma in pochissimi hanno puntato seriamente l’indice su un sistema di potere che – perseguendo lo smantellamento sistematico della Sanità pubblica in ossequio ai dogmi dell’austerity – ha indebolito il sistema sanitario al punto da renderlo totalmente impreparato a gestire una pandemia come quella che stiamo vivendo. Ciò è particolarmente vero nel nostro Paese dove appare ormai acclarato che le ragioni del triste primato sul numero dei decessi siano da ricercare nelle condizioni critiche in cui versa la nostra Sanità. Basti pensare che prima dell’ingresso nell’Euro l’Italia poteva contare su un numero di posti letto quattro volte maggiore rispetto a quello attuale che si aggira attorno alle 150mila unità. Senza considerare i tagli brutali al personale medico e infermieristico che ci hanno portato in fondo a tutte le classifiche europee, persino dopo la Grecia. Tra le poche voci ferocemente critiche nei confronti di questo stato di cose, e segnatamente delle logiche perverse dell’Euro, si distingue quella di Gianluigi Paragone, leader di Italexit, un nuovo soggetto politico che la propria avversione per Bruxelles la dichiara fin dal nome e dal simbolo.
Partiamo dall’inizio: più di qualcuno, anche su queste pagine, ha sostenuto che questa pademia mondiale è in qualche modo figlia della globalizzazione. Pensi anche tu che questo Covid ce lo siamo andati a cercare inseguendo ossessivamente le logiche di mercato, comprese quelle insalubri dell’ormai celeberrima Wuhan?
Lo definirei un virus della globalizzazione e nella globalizzazione.
Sicuramente è un virus globale in tutti i sensi: sia dal punto di vista della diffusione che da quello più ampio della ricaduta: si inserisce cioè in un corpo infettato. Il virus, come sappiamo, riescono a diffondersi laddove trovano un corpo indebolito. Il Covid si è rivelato così pericoloso proprio a causa della globalizzazione che negli anni ha de-immunizzato l’Occidente.
A proposito di Wuhan, non ti sembra curioso che quando qualcuno prova a puntare il dito contro la Cina, scattano subito gli anatemi di razzismo e invece ora, nel definire questa variante anglosassone del Covid, tutti i media parlano tranquillamente di “virus inglese” senza che nessuno faccia un plissé?
È un sintomo della nostra debolezza. Noi abbiamo paura a stigmatizzare soggetti cui riconosciamo più forza e più potere. Succede anche con l’Islam. Nel caso del Covid abbiamo paura ad etichettare i cinesi perché oggi mezzo capitalismo è nelle loro mani. Così per evitare di disturbare il manovratore ricorriamo a questi giochetti lessicali. Con la Gran Bretagna siamo più spigliati perché non esiste un rapporto di dipendenza come quello che ci lega alla Cina.
Ma è accettabile avere come interlocutore economico (e persino diventarne dipendenti) un Paese che non rispetta i diritti del lavoro e in cui persino i diritti umani risultano un’illusione?
Nella globalizzazione sì. Il punto è capire se si vuole stare all’interno di questa architettura oppure se la si vuole contestare.
Sta di fatto che attualmente la Cina è il più forte player mondiale cui sono state riconosciute delle facoltà, il dumping, che sarebbero dovute scadere, ma ancora oggi hanno validità.
Nessuno va a controllare il tasso di democrazia interna o di diritto giuslavoristico o ambientale della Cina, perché tutti sanno che in questo momento è un Paese che ha in mano le leve del potere economico. Detto questo, va anche considerato che all’interno dello schema globalista lo sfruttamento del lavoro – per fare un esempio – non è che sia una pratica soltanto cinese. Lì raggiunge un’intensità elevata, ma è un fenomeno ormai consolidato anche nell’Eurozona.
Il Covid – così come la crisi finanziaria che lo ha preceduto e che ora sarà destinata ad acuirsi in modo drammatico – poteva essere un’occasione traumatica, ma utile per mostrare all’opinione pubblica tutti i limiti e le contraddizioni del neo-liberismo finanziario.
Eppure la sovrastruttura globalista sembra riuscita a rovesciare i termini della questione accreditandosi come unica realtà abilitata ad affrontare l’emergenza, tacciando di irresponsabilità e “negazionismo” chiunque osasse metterla in discussione. Come è riuscito questo neo-liberismo ad elevarsi, per dirla con Fusaro, a una sorta di indiscutibile stato di natura, rendendo di fatto impossibile ogni forma di dissenso?
Dal mio punto di vista chi sperava di denunciare le storture del neo-liberismo attraverso il fenomeno pandemico ha sbagliato tutto. Vuol dire non conoscere il genere umano. Gli individui quando hanno paura di morire tornano in uno stato d’infantilismo. Per istinto di sopravvivenza si agitano finendo per fare esattamente il contrario di ciò che dovrebbero fare. In una situazione come questa (in cui ogni sera veniamo messi davanti al pallottoliere per la conta dei deceduti) i mali del mercatismo scompaiono e assumono rilevanza solo per chi già precedentemente aveva capito qualcosa. Per tutti gli altri prevale invece il panico. Sentimento che va assolutamente rispettato se non si vuole peccare della stessa arroganza che contraddistingue la narrazione del potere dominante.
Sei stato definito il Farage italiano. Cosa rispondi a chi evoca catastrofi finanziarie per il nostro Paese in caso di uscita dall’Euro?
Che la sua è semplicemente un’opinione e non una verità assoluta come vorrebbe farci credere. Sono affermazioni che non hanno alcun fondamento probatorio. Un po’ come dire che l’Euro abbia assicurato la pace. Non ci sono prove a suffragio. Anzi Joseph Stiglitz, in un paragrafo del suo libro L’Euro, demolisce con argomentazioni più che convincenti proprio quest’ultima affermazione per la quale l’Europa avrebbe garantito la pace. Tanto per cominciare perché oggi le guerre non si combattono più con le armi, ma attraverso altri strumenti non meno cruenti e distruttivi.
Si tratta però di semplici “opinioni” che hanno acquisito la forza del dogma…
Come sempre accade: la storia la scrive chi ha più inchiostro. Fino a quando, a un certo punto, non arriva il momento del redde rationem. Io sto andando in giro a parlare di Italexit trovo sempre più imprenditori, ma anche persone comuni, che si sono accorti dell’inganno. È un po’ come il Truman Show: quando qualcuno ferma lo spettacolo e ti dà la possibilità per cinque minuti di razionalizzare ti accorgi che quel maremoto che s’era scatenato, e che tu stavi sfidando, era nient’altro che un grande bluff.
Sono diversi a Destra, tra politici e intellettuali, a parlare di sovranismo utilizzando toni critici nei confronti dell’Europa.
Ti giro la stessa domanda che spesso faccio a loro: è compatibile una qualche forma di sovranismo all’interno di questo modello neo-liberista dal quale sembra impossibile chiamarsi fuori?
No. E credo che il Centrodestra prima o poi dovrà decidere da che parte stare: o con il made in Italy o con il made in Europe. Non ha senso continuare a sbandierare la sovranità sapendo che quest’ultima non è più in capo al popolo rappresentato da quella bandiera.
Se si vuole impedire davvero la sostituzione del tricolore con il vessillo europeo bisogna decidersi a fare una battaglia politica e non limitarsi agli slogan.
Perché l’unica forma di Europa compatibile con le rispettive sovranità dei popoli che la compongono, è quella che sta dentro uno schema Confederale di Stati pienamente sovrani.
Solo così si favorirebbe un mercato largo capace di garantire gli interessi dei cittadini europei anziché quelli di ristretti circoli di potere.
Un processo che passa dal recupero dell’idea di Stato e dalla ricostruzione, quantomeno nel nostro Paese, di un bel pezzo di classe dirigente pubblica.
Occorre riaffermare la consapevolezza che essere un dirigente pubblico significa avere delle responsabilità che un dirigente privato non ha e non deve avere. Perché il funzionario pubblico persegue un interesse collettivo mentre quello privato no. E c’è una bella differenza.
*Da Candido di gennaio 2021