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L’intervista (di A. Di Mauro). Paragone: “Unica Europa possibile è confederazione di Stati sovrani”

"Il Covid? Un virus della globalizza­zione e nella globalizzazione che ha de-immunizzato l'Occidente"

by Alessio Di Mauro*
13 Gennaio 2021
in Scritti
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Mentre a reti unificate si continua a parlare del Covid – il quale non ac­cenna a mollare la presa, anzi ora sembra  persino rilanciare ripresen­tandosi nella temibile versione british – fa rumore il silenzio che avvolge tutto ciò che riguarda l’altra pande­mia che affligge da decenni l’intero Occidente e che risponde al nome di neo-liberismo globalizzato. Perché tutti, in questi mesi, si sono prodotti nelle più disparate analisi sulle origini e sulla dif­fusione del virus, ma in pochissimi hanno puntato seriamente l’indice su un si­stema di potere che – per­seguendo lo smantellamento sistema­tico della Sanità pubblica in ossequio ai dogmi dell’austerity – ha indebo­lito il sistema sanitario al punto da renderlo totalmente impreparato a gestire una pandemia come quella che stiamo vivendo. Ciò è particolar­mente vero nel nostro Paese dove ap­pare ormai acclarato che le ragioni del triste primato sul numero dei de­cessi siano da ricercare nelle condi­zioni critiche in cui versa la nostra Sanità. Basti pensare che prima dell’ingresso nell’Euro l’Ita­lia poteva contare su un numero di posti letto quattro volte maggiore rispetto a quello at­tuale che si aggira at­torno alle 150mila unità. Senza conside­rare i tagli brutali al personale medico e infermieristico che ci hanno portato in fondo a tutte le classi­fiche europee, persino dopo la Grecia. Tra le poche voci ferocemente critiche nei confronti di questo stato di cose, e segnatamente delle logiche perverse dell’Euro, si distingue quella di Gianluigi Para­gone, leader di Italexit, un nuovo soggetto politico che la propria avver­sione per Bruxelles la dichiara fin dal nome e dal simbolo.

 

Partiamo dall’inizio: più di qual­cuno, anche su queste pagine, ha sostenuto che questa pademia mondiale è in qualche modo figlia della globalizzazione. Pensi anche tu che questo Covid ce lo siamo an­dati a cercare inseguendo ossessi­vamente le logiche di mercato, comprese quelle insalubri dell’or­mai celeberrima Wuhan?

Lo definirei un virus della globalizza­zione e nella globalizzazione.

Sicuramente è un virus globale in tutti i sensi: sia dal punto di vista della dif­fusione che da quello più ampio della ricaduta: si inserisce cioè in un corpo infettato. Il virus, come sappiamo, rie­scono a diffondersi laddove trovano un corpo indebolito. Il Covid si è rivelato così pericoloso proprio a causa della glo­balizzazione che negli anni ha de-im­munizzato l’Occidente.

 

A proposito di Wuhan, non ti sem­bra curioso che quando qualcuno prova a puntare il dito contro la Cina, scattano subito gli anatemi di razzismo e invece ora, nel defi­nire questa variante anglosassone del Covid, tutti i media parlano tranquillamente di “virus inglese” senza che nessuno faccia un plissé?

È un sintomo della nostra debolezza. Noi abbiamo paura a stigmatizzare soggetti cui riconosciamo più forza e più potere. Succede anche con l’Islam. Nel caso del Covid abbiamo paura ad etichettare i cinesi perché oggi mezzo capitalismo è nelle loro mani. Così per evitare di disturbare il manovratore ri­corriamo a questi giochetti lessicali. Con la Gran Bretagna siamo più spi­gliati perché non esiste un rapporto di dipendenza come quello che ci lega alla Cina.

 

Ma è accettabile avere come inter­locutore economico (e persino di­ventarne dipendenti) un Paese che non rispetta i diritti del lavoro e in cui persino i diritti umani risul­tano un’illusione?

Nella globalizzazione sì. Il punto è ca­pire se si vuole stare all’interno di que­sta architettura oppure se la si vuole contestare.

Sta di fatto che attualmente la Cina è il più forte player mondiale cui sono state riconosciute delle facoltà, il dum­ping, che sarebbero dovute scadere, ma ancora oggi hanno validità.

Nessuno va a controllare il tasso di de­mocrazia interna o di diritto giuslavo­ristico o ambientale della Cina, perché tutti sanno che in questo momento è un Paese che ha in mano le leve del potere economico. Detto questo, va anche con­siderato che all’interno dello schema globalista lo sfruttamento del lavoro – per fare un esempio – non è che sia una pratica soltanto cinese. Lì raggiunge un’intensità elevata, ma è un fenomeno ormai consolidato anche nell’Euro­zona.

 

Il Covid – così come la crisi finan­ziaria che lo ha preceduto e che ora sarà destinata ad acuirsi in modo drammatico – poteva essere un’oc­casione traumatica, ma utile per mostrare all’opinione pubblica tutti i limiti e le contraddizioni del neo-liberismo finanziario.

Eppure la sovrastruttura globalista sembra riuscita a rovesciare i ter­mini della questione accreditan­dosi come unica realtà abilitata ad affrontare l’emergenza, tacciando di irresponsabilità e “negazioni­smo” chiunque osasse metterla in discussione. Come è riuscito que­sto neo-liberismo ad elevarsi, per dirla con Fusaro, a una sorta di in­discutibile stato di natura, ren­dendo di fatto impossibile ogni forma di dissenso?

Dal mio punto di vista chi sperava di denunciare le storture del neo-liberismo attraverso il fenomeno pandemico ha sbagliato tutto. Vuol dire non conoscere il genere umano. Gli individui quando hanno paura di morire tornano in uno stato d’infantilismo. Per istinto di sopravvivenza si agitano finendo per fare esattamente il contrario di ciò che dovrebbero fare. In una situazione come questa (in cui ogni sera veniamo messi davanti al pallotto­liere per la conta dei dece­duti) i mali del mercatismo scompaiono e assumono ri­levanza solo per chi già precedentemente aveva ca­pito qualcosa. Per tutti gli altri prevale invece il pa­nico. Sentimento che va as­solutamente rispettato se non si vuole peccare della stessa arroganza che con­traddistingue la narrazione del potere dominante.

 

Sei stato definito il Farage italiano. Cosa rispondi a chi evoca catastrofi finanziarie per il nostro Paese in caso di uscita dall’Euro?

Che la sua è semplicemente un’opinione e non una verità assoluta come vor­rebbe farci credere. Sono affermazioni che non hanno alcun fondamento pro­batorio. Un po’ come dire che l’Euro abbia assicurato la pace. Non ci sono prove a suffragio. Anzi Joseph Stiglitz, in un paragrafo del suo libro L’Euro, demolisce con argomentazioni più che convincenti proprio quest’ultima affer­mazione per la quale l’Europa avrebbe garantito la pace. Tanto per cominciare perché oggi le guerre non si combattono più con le armi, ma attraverso altri strumenti non meno cruenti e distrut­tivi.

 

Si tratta però di semplici “opi­nioni” che hanno acquisito la forza del dogma…

Come sempre accade: la storia la scrive chi ha più inchiostro. Fino a quando, a un certo punto, non arriva il mo­mento del redde rationem. Io sto an­dando in giro a parlare di Italexit trovo sempre più imprenditori, ma anche persone comuni, che si sono accorti dell’inganno. È un po’ come il Truman Show: quando qualcuno ferma lo spet­tacolo e ti dà la possibilità per cinque minuti di razionalizzare ti accorgi che quel maremoto che s’era scatenato, e che tu stavi sfidando, era nient’altro che un grande bluff.

 

Sono diversi a Destra, tra politici e intellettuali, a parlare di sovrani­smo utilizzando toni critici nei confronti dell’Europa.

Ti giro la stessa domanda che spesso faccio a loro: è compatibile una qualche forma di sovranismo all’interno di questo modello neo-liberista dal quale sembra impossi­bile chiamarsi fuori?

No. E credo che il Centrodestra prima o poi dovrà decidere da che parte stare: o con il made in Italy o con il made in Europe. Non ha senso continuare a sbandierare la sovranità sapendo che quest’ultima non è più in capo al po­polo rappresentato da quella bandiera.

Se si vuole impedire davvero la sostitu­zione del tricolore con il vessillo europeo bisogna decidersi a fare una batta­glia politica e non limi­tarsi agli slogan.

Perché l’unica forma di Europa compatibile con le rispettive sovranità dei po­poli che la compongono, è quella che sta dentro uno schema Confederale di Stati pienamente sovrani.

Solo così si favorirebbe un mercato largo capace di garantire gli interessi dei cittadini europei anziché quelli di ristretti circoli di potere.

Un processo che passa dal recupero dell’idea di Stato e dalla ricostruzione, quantomeno nel nostro Paese, di un bel pezzo di classe diri­gente pubblica.

Occorre riaffermare la consapevolezza che essere un dirigente pubblico signi­fica avere delle responsabilità che un dirigente privato non ha e non deve avere. Perché il funzionario pubblico persegue un interesse collettivo mentre quello privato no. E c’è una bella diffe­renza.

*Da Candido di gennaio 2021

Alessio Di Mauro*

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Tags: europagianluigi paragoneintervistaitalexit

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