«O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: io non vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nel grande specchio ignudo, nel grande specchio ignudo velato dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce era il bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mammelle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e non un Dio era nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incantevole cielo»
Questa prosa lirica (che potrebbe facilmente scomporsi in versi) appartiene al penultimo paragrafo della sezione La notte che apre i Canti orfici (1914) di Dino Campana (1885 – 1932). È nota la vicenda del manoscritto, intitolato inizialmente Il giorno più lungo, che, dato nel 1913 in visione ad Ardengo Soffici, fu da questi smarrito durante un trasloco. Il poeta di Marradi si dette allora furiosamente a ricostruirlo a memoria e, grazie ai soldi di una colletta, lo pubblicò nel 1914 con il titolo senz’altro più significativo e indovinato di Canti orfici. Il manoscritto originario fu poi causalmente ritrovato nel 1971 tra le carte di Soffici e, a giudizio di critici autorevoli, se questa è stata una fortuna, paradossalmente non è «paragonabile alla fortuna del suo smarrimento, perché se questa fosse stata l’opera stampata, non sarebbe stata ancora un’opera-capolavoro come furono poi i Canti orfici» (Neuro Bonifazi).
Un’opera aperta
Se il termine «canti» richiama in qualche modo Leopardi, l’aggettivo «orfico» rimanda all’orfismo inteso sia come l’antica dottrina religiosa e misterica dei Greci sia come mito, come possibilità data al poeta di risolvere l’enigma dell’esistenza attraverso illuminazioni e visioni che si esprimono in versi e/o in prose liriche.
Per questo motivo «nella raccolta compaiono testi in versi e in prosa, forme libere e frammentarie, che non obbediscono a nessun canone tradizionale» (Anna Mattei), nei quali però il procedere formale con le sue insistenti reiterazioni, le sue inversioni sintattiche, la circolarità dei sintagmi, la frammentarietà e l’incompiutezza stessa, dà luogo a suggestioni armoniche e musicali.
Come è stato notato i Canti orfici hanno la struttura di un’opera aperta, di una «poesia in fuga» (Eugenio Montale). Di qui il loro fascino o il loro limite a seconda dei critici che tuttora si dividono in due schiere: coloro che salutano in Campana il vero genio poetico del ‘900, l’unico vero poète maudit italiano, e coloro che ne mettono in rilievo i difetti e parlano della sua opera come di un progetto fallito da mettere in conto alla follia. Noi riteniamo con Neuro Bonifazi che «là dove tutti hanno visto l’impotenza o la pazzia, la confusione dello spirito […] proprio lì Campana tocca il culmine di un nuovo modo di fare poesia, illogica, irrazionale, asintattica in una parola moderna prima degli ermetici e di Ungaretti».
La lezione di Nietzsche
Ma torniamo al brano citato, che si chiude così: «Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza? La luna sorgeva nella sua vecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina». Si sente potentemente in questi versi la lezione di Nietzsche e del suo Così parlò Zarathustra, lezione profondamente assimilata da Campana che del filosofo tedesco fece la sua guida. Il poeta di Marradi, peraltro, come ci testimonia Soffici, conosceva molte lingue e leggeva gli autori in lingua originale. La stessa dedica dei Canti orfici “a Guglielmo II imperatore dei germani” alla vigilia della prima guerra mondiale non è solo, come Campana stesso spiegò, uno sfottò all’ambiente borghese del suo paese, «il farmacista, il prete, l’ufficiale della posta», ma anche un sottile, implicito omaggio al filosofo dell’eterno ritorno, cui lo accomunò pure la follia con cui si chiuse la sua esistenza.
La notte è il tempo del sogno, della visione, della dilatazione della coscienza. «Io poeta notturno / vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo», scrive Campana nella famosa poesia La chimera. La notte allude anche al viaggio iniziatico del poeta, fatto di visioni e di ricordi, di oscurità e di luce e anche di amore sessuale, non escluse le prostitute, che nelle sue liriche acquistano umana dignità. Nel sesso il poeta trova un magico ponte verso il divino e verso la bellezza. «L’iniziazione è un lungo viaggio costituito da innumerevoli passaggi, transiti successivi, ripetuti continuamente; anzi, là dove c’è la partenza, c’è anche il ritorno, dove c’è il fango c’è anche il sorriso, dove c’è la prostituzione c’è anche la verginità» (Neuro Bonifazi). La Chimera riassume in un’immagine simbolica l’ansia d’infinito e d’amore per cui vive il poeta.
L’amore per Sibilla Aleramo
L’amore travagliato, intenso e distruttivo, che legò tra il 1916 e il 1917 Dino Campana a Sibilla Aleramo rappresenta per certi versi il culmine del suo itinerario esistenziale. E forse le sue poesie più belle e più mature sono proprio quelle dedicate a Sibilla, che non si trovano nei Canti orfici ma nei versi sparsi del Quaderno, e sono citate in quel magnifico film che è Un viaggio chiamato amore (2002) con la regia di Michele Placido e l’interpretazione magistrale di Stefano Accorsi (Dino) e Laura Morante (Sibilla). Ne riportiamo due:
«I piloni fanno il fiume più bello / E gli archi fanno il cielo più bello / Negli archi la tua figura. / Più pura nell’azzurro è la luce d’argento / Più bella la tua figura. / Più bella la luce d’argento nell’ombra degli archi / Più bella della bionda Cerere la tua figura.» (I piloni fanno il fiume più bello).
«In un momento / Son sfiorite le rose / I petali caduti / Perché io non potevo dimenticare le rose / Le cercavamo insieme / Abbiamo trovato delle rose / Erano le sue rose erano le mie rose / Questo viaggio chiamavamo amore / Col nostro sangue e colle nostre lacrime facevamo le rose / Che brillavano un momento al sole del mattino / Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi / Le rose che non erano le nostre rose / Le mie rose le sue rose // P.S. E così dimenticammo le rose» (In un momento).