La diagnosi potrebbe avere un nome letterario ed altisonante: “Sindrome narcisistica di Frodo Baggins”. Una forma patologica che interessa in modo degenerescente le realtà politiche d’ispirazione populista e sovranista. I sintomi: autoreferenzialità, distacco dalla realtà, aggressività, incapacità empatica, sadismo di tipo consolatore.
Per quanto siano state approfondite da un punto di vista squisitamente epico, le figure di Tolkien sono foriere di una profondità psichica e spirituale troppe volte sottodimensionata rispetto alla narrazione corale della Compagnia.
Frodo tra figura salvifica e anti-eroe
La figura di Frodo, ad esempio, merita una breve riflessione in relazione ai tempi politici attuali. Sbrigativamente presentato come il “caprus” espiatorio, come anello di congiunzione sacrale fra paganesimo e cristianesimo, fra ethos ed autosacrificio salvifico di tipo individuale, invero Frodo non ha il profilo psichico del salvatore. Né possiede le caratteristiche dell’eroe il cui cadere in tentazione deve essere ricondotto alle dinamiche legittime e vitali della prova, del fallimento o della sconfitta.
Frodo Baggins rappresenta piuttosto la specula della volontà di potenza nichilistica. Nietzsche stesso ammetteva nei suoi scritti che non esiste volontà di potenza più potente del desiderio di ascesi. Per questo oscuro motivo nessun membro del consiglio riunito a Gran Burrone oserà farsi carico del gravoso fardello. Lo sguardo di Gandalf che andrà a posarsi sul braccio alzato dello hobbit è un saggio sguardo ricolmo di dubbio e non soltanto di protettiva preoccupazione.
Farsi carico del male con l’intento di usarlo per poi distruggerlo richiede una visione assai alta di sé, più della stessa dose di coraggio necessaria ad affrontare la sfida. Qui emerge il profilo narcisistico del “portatore”. Ogni forma di rabbia, di egotismo, di gelosia, di sadismo verso i compagni di viaggio, ogni caduta morale, insomma, non sono causate dall’anello del potere in sé, ma dal karma stesso del portatore. Tolkien è dunque sublime nel raccontare come sia il contesto ritmico del bene, fatto di tanti piccoli personaggi e momenti, ad usare Frodo come strumento di Giustizia.
Sarà dunque il modesto, umile, socialmente inferiore (in termini feudali, la famiglia Gamgee è al servizio, materiale, della famiglia Baggins) Samvise a condurre fattivamente a compimento il destino della Compagnia: fosse per il solo profilo psico-spirituale di chi a Gran Burrone si eresse come “primus”, il cammino verso il Monte Fato risulterebbe eternato nelle dinamiche personali di una narrazione sacrificale senza fine, ossia senza compimento.
Veniamo dunque a noi: chi combatte il male sul suo stesso campo è di certo un uomo o una donna di grande coraggio. Anime degne di ammirazione e fiducia. Non è un caso che il potere mainstream non riconosca alcuna figura leader, ma solo una cieca obbedienza collettiva all’agenda del nichilismo; mentre i partiti del sovranismo fondino la propria stessa esistenza su singoli individui di grande carisma. Se tuttavia essi procedono nel cammino avendo come unica bussola il ricordo del giorno dell’acclamazione del loro coraggio, il rischio di insuccesso, di distacco dalla realtà, di pantano morale diventa enorme. E’ accaduto a Silvio Berlusconi, è già accaduto in parte a Matteo Salvini, per non parlare di Luigi di Maio.
Il populismo e la Giustizia
Il populismo, ossia la pretesa di assumere politicamente il ruolo etico del Giusto, senza un coinvolgimento organico di tutti i campi della Verità, senza ascoltare le ritmiche complesse dei momenti storici, diventa mero esercizio di vanità: il più stupido dei peccati.
Se dunque Samvise riconosce Frodo come “padron”, il lieto fine può arrivare solo se chi porta l’anello riassume in sé non solo l’idea della missione, ma anche il rispetto dei ruoli organici dell’intero campo alleato. In questi anni le bordate che il destra-centro ha riservato ai “tuttosubitisti”, ai “velleitari”, ai “vetero-inattuali”, ai “critici”, agli “idealisti”, ai “puri” ha reso la salita al Monte Fato non solo una strada pressoché indefinita, ma soprattutto un cammino dal non chiaro significato.
Il richiamo del Corno è, inevitabilmente, un richiamo collettivo: è anzi un richiamo fondamentalmente destinato a quella parte di bontà generalmente considerata poco incline alla gloria intesa come utilizzo finalistico del potere. Ci vuole sensibilità e ritmo per ridare alla politica quella dignità di lotta fra bene e male che, oggettivamente, si è palesata in tutta la sua sacralità negli ultimi anni. E’ una sensibilità “magica”, degiorgiana, capace di dare a ciascuno il proprio ruolo. La speranza, dunque, è che i tanti Samvise che ancora coprono le spalle ai portatori non si stanchino della gelida indifferenza loro riservata.
Ma in Italia conta di più una ASL del Sud di un Governo?