Leo Longanesi, con il titolo di un suo libro, chiarì in modo inequivocabile la relazione che gli italiani intrattennero con il Duce, dopo il suo assassinio: «Un morto tra noi». Con Mussolini ed il fascismo avremmo dovuto, infatti, continuare a fare i conti. Per troppo tempo si è parlato del movimento dei fasci di combattimento, nonché del regime che, in sua sequela, si insediò al potere in Italia nel 1922, come di un «errore contro la cultura». Oggi la storiografia più accreditata tende a definirlo (se tale fu, e non ne siamo convinti) un «errore della cultura». Il fascismo, in questa prospettiva, fu esito degli sviluppi teorici che si imposero in Italia ed in Europa nel primo Novecento. Si inserisce in tale filone esegetico anche l’ultima fatica di Adriano Scianca, Mussolini e la filosofia, nelle librerie per i tipi di Altaforte Edizioni (per ordini: info@altafortedizioni.it, pp. 400, euro 25,00). Il volume è introdotto dalla prefazione di Marcello Veneziani e chiuso dalla postfazione di Caio Mussolini.
Scianca mira a presentare Mussolini quale personaggio storico appassionatamente coinvolto nel dibattito filosofico del proprio tempo, secondo una triplice modalità: 1) in qualità di «prodotto», egli stesso, della filosofia; 2) quale studioso, sia pur non sistematico, di filosofia; 3) come figura atta a dar da pensare ai filosofi. La formazione culturale di Mussolini è stata screditata o irrisa da storici animati da pregiudizio ideologico: a Renzo De Felice si deve, invece, il seguente giudizio di merito: «Mussolini […] era pur sempre un uomo di vaste (anche se disordinate) letture e di una notevole curiosità intellettuale» (pp. 14-15). Nel periodo socialista per il giovane capopopolo, ricorda Scianca, risultò determinante l’incontro con Angelica Balabanoff, che fornì: «una disciplina mentale a quell’attivista ricco di energie e spunti ma intimamente caotico» (p. 51). Ciò consentì all’agitatore romagnolo, che il padre Alessandro aveva formato sui testi sacri dell’anarchico Cafiero, di inserirsi nel dibattito interno al marxismo, animato, in primis, da Antonio Labriola. Questi mirava a svincolare la dottrina rivoluzionaria dalle scorie positiviste-evoluzioniste, dal necessitarismo storico, al fine di metterne in luce il nucleo vitale: la filosofia della praxis.
Al Labriola rispose Croce, inizialmente coinvolto in prima persona dalle tesi del pensatore di Cassino, negando valore filosofico al marxismo e «salvando» il materialismo storico solo come canone storiografico. Sorel, diversamente, alla rigidità del marxismo di scuola tedesca, opponeva la lettura latina del Labriola, radicalizzando le posizioni di quest’ultimo in termini volontaristici e giungendo, in tale percorso, a teorizzare il mito dello sciopero generale quale strumento rivoluzionario, atto a liberare il socialismo dalle contaminazioni borghesi e riformiste. Nel dibattito svolse un ruolo di primo piano Gentile che, come nota Scianca, nelle opere dedicate al pensatore di Treviri, chiarì l’identità di soggetto ed oggetto, di fare e conoscere, riconducendo: «una volta di più Marx nelle braccia dell’hegelismo» (p. 36). Gentile, a detta di Augusto Del Noce, avrebbe inaugurato un’originale figura della critica marxista, alla quale Mussolini guardò con estremo interesse, quella dell’inveramento, ovverossia la: «“ripulitura” (del marxismo) da ogni residuo materialistico e metafisico» (p. 37). Ciò indusse il pensatore di Castelvetrano a sganciare l’idea di rivoluzione dal giacobinismo per renderla prossima al pensiero risorgimentale e proporla quale rivoluzione-restaurazione. A tale idea, Mussolini, con la fondazione dei fasci, fornì prassi politica.
Oltre ai filosofi ora citati, nell’iter intellettuale del Duce, svolsero un ruolo essenziale, Stirner e Nietzsche. Il secondo, in particolare, con la dottrina della volontà di potenza e con l’idealizzazione della morale dei Signori, divenne punto nevralgico nella teorizzazione del suo socialismo aristocratico: «In piena Grande Guerra, è tramite Nietzsche che egli giustifica l’avanguardismo aggressivo e futurista […] di cui […] si sentiva portatore» (p. 74). La lezione nietzschiana del «vivere pericolosamente» sostanziò il volume mussoliniano, La filosofia della forza, divenendo premessa indispensabile per l’incontro con lo scetticismo di Giuseppe Rensi. Il filosofo veronese leggeva il reale in termini polemologici, conflittuali, quale eterna metamorfosi, non normabile dall’approccio intellettuale, come aveva mostrato il tragico deflagrare del primo conflitto mondiale. Se è impossibile addivenire, sotto il profilo epistemologico, alla definizione di una verità unica, certa e condivisa, non resta che il riferimento al relativismo, a verità temporanee. Ma, a differenza del pensiero debole postmoderno, Rensi, e con lui Mussolini, aveva contezza che: «la conflittualità irriducibile delle visioni del mondo non si risolve nell’agone democratico tramite il libero confronto e il rimando […] alla decisione della maggioranza, ma al contrario in un decisionismo assoluto» (p. 106). La Filosofia dell’autorità del Rensi è sintesi delle diverse spinte ideali che convissero in Mussolini. Ad essa guardò con speranza Pirandello, nel chiedere, come opportunamente ricorda Scianca, la propria adesione al PNF. Altro che antifascismo pirandelliano! Il Capo politico è, in tal prospettiva, colui che pone intensivamente il reale in forma.
Nella definizione del mondo ideale di Mussolini, un ruolo significativo lo ebbe Machiavelli: l’antropologia pessimistica del Segretario fiorentino, appresa alla scuola de La Voce, è la reale conditio sine qua non, pre-requisito della filosofia dell’autorità. Alla stessa scuola, Mussolini imparò come il Risorgimento fosse stato una rivoluzione incompiuta e, attraverso Oriani, individuò la necessità della Rivolta ideale, humus vitale della religione politica incarnata dal fascismo. Il futuro Duce ebbe chiaro, dopo l’incontro con Nietzsche e Gentile che: «il passato inerte, il “così fu”, è […] un macigno che pesa sulla libertà umana, che la volontà deve trasfigurare in qualcosa di nuovo» (p. 394). L’idea fascista di storia è idea aperta, centrata su ciò che nel dopoguerra, l’inascoltato Giorgio Locchi, definì l’idea sferica o tridimensionale del tempo, latrice di Rinascenze e Nuovi Inizi. Un’idea che sollecita gli individui all’azione e alla responsabilità politica. Tale idea per farsi mondo deve incarnarsi negli individui, nei loro corpi, nella vita.
Va segnalato, tra gli altri temi toccati nel libro, l’analisi dei rapporti Mussolini-Evola: l’autore evidenzia il tratto tradizionale della «rettifica» del fascismo proposta dal filosofo romano e chiarisce l’apprezzamento espresso da Mussolini per la teoria della «razza dello spirito», esperita quale alternativa al razzismo zoologico nazista.
Un libro, in conclusione, da cui trarre stimoli per la comprensione del passato e per agire nel presente.
Non è vero che il Fascismo non aveva una cultura, sono le solite baggianate raccontate dalla sinistra, che da quando ha preso il potere nel dopoguerra, si erge a detentrice assoluta della cultura. Quando in realtà ciò che esprime è anticultura, fondata su relativismo etico e morale, modernismo e antipatriottismo.