Può un ennesimo Gran Premio dominato da Lewis Hamilton, passare alla storia e divenire a suo modo iconico?
Il fine settimana di F1 appena conclusosi verrà infatti ricordato per l’incidente di Romain Grosjean.
Negli occhi permangono vivissime le istantanee del primo giro: la partenza, il serpentone che si snoda dopo la serie delle prime curve e lì dietro, nelle retrovie, la brusca sterzata verso destra di Grosjean per evitare Magnussen, causa primaria del contatto con Kvyat; è a questo punto che la Haas parte per la tangente e va a schiantarsi quasi perpendicolarmente, spezzandosi in due tronconi inghiottita da una palla di fuoco e rimanendo incastrata con l’avantreno sotto le barriere, dopo essere ruotata in senso orario, il retrotreno dall’altra parte, immobile vicino alla pista.
Passano 28” interminabili secondi prima che il pilota riesca a saltare via da quell’inferno e a ricevere i primi soccorsi (in F1 le macchine dei medici seguono i protagonisti per tutto il primo giro).
Per il Circus, quest’episodio ha costituito un déjà-vu, un salto indietro ai tempi in cui il fuoco è stato il suo peggior nemico, fuoco che non di rado inghiottiva le vite dei suoi alfieri: da Jo Schlesser (1968), a Riccardo Paletti (1982), passando per Roger Williamson (1973) per arrivare ai più recenti incontri col fuoco di Berger (1989) e Verstappen (1994), questi ultimi due conclusisi soltanto con un grande spavento, senza ovviamente dimenticare il celeberrimo rogo del Nurburgring 1976 che quasi costava la vita all’allora stella Ferrari Niki Lauda.
Eppure, paradossalmente, in questo mix infernale, il pericolo non è stato rappresentato “solamente” dal rogo in sé, quant’anche dal guard-rail che in quel punto non era adatto per recepire un urto quasi frontale, giacché, se non ci fosse stato l’Halo (non per nulla questo sistema è progettato per resistere a carichi fino a 12.000 kg), il casco del pilota sarebbe andato a collidere direttamente contro le barriere divelte, divenute praticamente delle gigantesche lame, con delle conseguenze tristemente intuibili: anche in questo caso, non mancano dei bruttissimi precedenti, con vetture infilate sotto alle delimitazioni e che avevano visto Regazzoni salvarsi a Monaco in Formula 3 nel 1968 ma pagare il più salato dei conti, rispettivamente nel 1973 e nel 1974, da parte di François Cevert e Helmuth Koinigg, entrambi sul circuito di Watkins Glen.
La scelta delle barriere
Al di là dell’aspetto meramente storico o descrittivo, è interessante ripercorrere la genesi della disposizione dei dispositivi di sicurezza lungo il tratto incriminato: il circuito del Bahrain è una di quelle piste di nuovissima concezione, dalle vie di fuga estese ed asfaltate e che dall’anno della sua inaugurazione, il 2004, ha sempre superato i controlli della FIA, ottenendo l’omologazione necessaria per lo svolgimento di questo tipo di prove; a primo impatto –e in questo senso sono già state annunciate ulteriori indagini da parte della FIA- sembra inimmaginabile che il metallo si possa ancora sfaldare e contorcere così, e a maggior ragione a fronte di nessun elemento di rivestimento antepostogli, che potesse lenire una forza di quel genere.
Nell’allungo dopo la serie delle prime tre curve in successione, la barriera protettiva (costituita di tre file di materiale) presenta una rientranza progressiva, con un angolo iniziale di circa 15° rispetto alla via di fuga e alla pista (che poi andrà a costeggiare linearmente), così da consentire l’accesso ad uno dei sei layouts dell’impianto, quello chiamato “Paddock”, e da proteggere contestualmente i commissari di percorso che lì si trovano: è difficile dunque, in un punto come quello dove si è già in piena accelerazione (Grosjean aveva già inserito la settima marcia), pensare ad un contatto con un’angolazione di quasi 90°, come invece puntualmente avvenuto.
Archiviata la fase “preistorica” delle balle di fieno/paglia, fino ai pericolosissimi muretti di cemento a secco che ancora negli anni ’80 delimitavano i tracciati cittadini, gli attuali impianti impiegano i guard-rail e i New Jersey (dispositivi di sicurezza modulari in plastica o calcestruzzo), pensati per essere paralleli al senso di marcia e che servono per smussare gli urti laterali, smorzando la velocità e rettificando le traiettorie, mentre per gli impatti frontali si usano le Tec Pro e le celeberrime file di gomme, che hanno una maggiore capacità di dissipare l’energia cinetica generatasi da un frontale; il primo problema dunque, è che se le protezioni impattate dalla Haas (pensate come detto poc’anzi per essere laterali alla carreggiata), non avessero presentato quella “rientranza” e fossero state maggiormente parallele alla pista, l’angolo d’impatto sarebbe stato presumibilmente minore.
Le vetture contemporanee: strutture e conformazione
Qualsiasi ragionamento tecnico sulle barriere, non ha alcun senso se non viene messo in rapporto con i bolidi che le sfrecciano a fianco, un concentrato di tecnologia e sofisticatissimi marchingegni: le Formula 1 2020 (peso minimo di 746 chilogrammi, 2000 millimetri di larghezza e oltre 5600 di lunghezza, tanto è vero che più di qualcuno scherzando causticamente le ha definite degli “autobus”) hanno la concezione del motore portante, ossia sono costruite intorno ad un telaio monoscocca che racchiude le sospensioni anteriori, la cellula di sopravvivenza (costruita in Kevlar, un composito di fibre di carbonio intrecciate tra loro, realizzata con diverse pelli sovrapposte, e che deve rispondere a severissimi test per reggere alla tensione, agli strappi e alle forature) con l’Halo e il serbatoio (alle spalle del pilota e protetto da un involucro auto sigillante), vicino al quale è posta la batteria dell’ERS, una delle componenti elettriche del propulsore.
Il propulsore a sua volta è attaccato alla scocca con sei bulloni e sostiene il cambio e le sospensioni posteriori, imbullonate alla stessa unità propulsiva; inoltre, sono previste diverse valvole per interrompere le eventuali fuoriuscite di benzina: una vettura comincia la gara con 100-110 chili (circa 145-150 litri) di carburante, necessari per affrontare l’intero gran premio, essendo stati i rifornimenti aboliti al termine della stagione 2009.
Si pensi inoltre che il motore venga progettato per lavorare ad una temperatura massima di regime di 200 C° (mantenuta assai più bassa mediante un’adeguata refrigerazione) ma che ovviamente tanto il blocco motore quanto i liquidi, si riscaldano molto velocemente e superata la terza curva, in accelerazione piena, i gas di scaricano erano ormai sui 900 C°; in più, le stesse batterie non sono facilmente raffreddabili, non potendosi usare un semplice liquido a diretto contatto e dunque quando esplodano sono difficilissime da spegnere, anche perché gli ioni di litio che le compongono generano delle reazioni chimiche continue.
Nell’incidente tutte le componenti non strutturali sono state strappate dalla monoscocca, inclusa la carrozzeria intorno al roll-bar (rimasto leggermente offeso), la carena in carbonio dell’Halo, i coni anti intrusione e ovviamente il motopropulsore.
Visti tali presupposti, si capisce perché tra le prime ipotesi era circolata la rottura del serbatoio, che poi avrebbe portato alla fiammata, anche se, al momento, una maggiore probabilità l’avrebbe assunta l’esplosione non già dal serbatoio divelto, quanto dal quantitativo di carburante già in circolo nel sistema di alimentazione e in ogni caso un ruolo fondamentale l’ha giocato il cortocircuito causato dai cavi della batteria ERS, come già detto locata vicino al serbatoio e che nella fattispecie ha funto da innesto.
La scaltrezza di Romain e l’innovazione
Al di là delle considerazioni e delle supposizioni tecniche, ciò che resta innegabile è che a salvare la vita al pilota sia stato il suo proverbiale sangue freddo ma anche tanta, tanta fortuna: secondo i dati disponibili, l’impatto è stato calcolato come avvenuto a 221 km/h, con un picco di decelerazione istantanea di 53 G.
L’aspetto incredibile è che Grosjean non abbia perso i sensi (uno svenimento gli sarebbe stato fatale, intrappolandolo nella cellula ardente), così come di non secondaria importanza è stato il distaccamento del volante, liberando immediatamente uno pertugio ulteriore di manovra all’interno del rottame deformato: per liberarsi da quella gabbia Romain ha impiegato 25” per saltare via (riuscendovi solo al terzo tentativo, dopo che i primi due erano andati a vuoto) ed altri 3” prima di ricevere l’assistenza medica.
Certo è che a ben guardare, le stesse fiamme sono state domate abbastanza rapidamente, nonostante l’intervento degli addetti non sia stato propriamente da manuale, con alcune difficoltà persino nell’attivare e dirigere gli estintori ma dopo tutto, il vero valore aggiunto è pervenuto dall’enorme progresso tecnologico e scientifico che è confluito nell’abbigliamento: quei quattro strati di Nomex, tra tuta e sottoveste del pilota sono il fiore all’occhiello della forgia degli ultimi modelli di tute, che secondo i nuovi standard devono arrivare a resistere fino a 20” (i guanti circa una decina) nelle condizioni più estreme; alla fine, il nostro se l’è cavata con delle scottature (e un paio di giorni passati in osservazione all’spedale) che purtroppo gli faranno saltare la prossima gara che si terrà ancora a Manama, la Haas ha già annunciato Pietro Fittipaldi (nipote del grande Emerson, campione con la Lotus nel 1972 e con la McLaren nel 1974) come sostituto ma visti i presupposti, fatto salvo il rammarico per non essere al via ad un Gran Premio iridato, non si può che tirare un grandissimo sospiro di sollievo.
Rafforzata fortemente è anche l’immagine della F1, che raccoglie i frutti di un lungo lavoro combinato tra piloti, ingegneri e addetti e che ha portato a dei livelli severissimi richiesti dai crash test, e che torna dalla prima gara in Bahrain con maggiori certezze sui grandi passi avanti fatti in materia di sicurezza, dopo il 2014 e il dramma di Jules Bianchi, dopo i dubbi su Halo, dopo le mille critiche che frequentemente non le sono state, con contezza, lesinate ma anche con la convinzione che la ricerca continua potrà essere un importante supporto per le condizioni e la guida sulle strade di tutti giorni, fermo restando che molto ancora andrebbe fatto sulla parte logistica delle piste, soprattutto quelle di più moderna concezione, a partire dalla maggiore formazione da offrire ai commissari, la cui tempestività è nevralgica nella salvaguardia dei piloti.
Resta però una certezza: il rischio zero non esiste e perciò si dovrà continuare a lavorare per avvicinarsi quanto più possibile alla perfezione fermo restando che, come dicono gli anglosassoni, “motorsport is dangerous”.