Casse Pipe
Pubblicato nel 1949, mentre Louis-Ferdinand Céline si trovava in esilio in Danimarca, nemico della Patria braccato da accuse di antisemitismo e collaborazionismo, Casse Pipe è un lacerto di romanzo rimasto incompiuto. Iniziato nel 1936, dunque tra Morte a credito e Bagatelle per un massacro, consta di un centinaio scarso di pagine che potrebbero far pensare ad opera minore – tale è, se rapportata ai grandi classici come Viaggio al termine della notte o alla Trilogia del Nord – pur tuttavia contraddistinto dall’inconfondibile stile narrativo: iperboli grottesche, scatarrate d’argot, sordide tirate cameratesche, rimestamenti nella merda (vieppiù equina); caracollanti tribolazioni in quella corporeità fetida e grandguignolesca, odorosa d’umanità al collasso, che incredibilmente Céline riesce sempre a musicare, a far passare, con ritmo scoppiettante, dalla viva sensazione al rigore della pagina stampata. Il volumetto Casse Pipe, traducibile dal gergo come carneficina, massacro, annientamento, è ambientato nel 1912, dunque due anni prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, eppure di quell’imminente tragedia europea si fa inquietante premessa: se ne scorge perfettamente l’atmosfera anticipatoria di mobilitazione totale, il lezzo apocalittico, presentimento dell’inadeguatezza umana (a maggior ragione cavalleresca) al cospetto di acciaiose meccaniche infuocate incombenti, del teatro di macchine distruttive che si prepara a scatenarsi. Tant’è che, stando alle parole del medico scrittore, il romanzo avrebbe dovuto svilupparsi proprio nel quadro della Grande Guerra e chissà cosa ne sarebbe uscito; il frammento superstite, pubblicato da Einaudi a cura di Ernesto Ferrero, riporta dapprima i patetici tentavi dello zio Edouard, tesi a dissuadere il nipote dalla decisione di partire per le armi con firma per tre anni. Come gran parte dell’opera letteraria celiniana, anche in questo caso traspare l’elemento autobiografico, giacché il personaggio Ferdinand, diciottenne, s’arruola volontario nei corazzieri a cavallo, 12° reggimento di stanza a Rambouillet, esattamente ciò che fece a suo tempo l’autore. Ma la memorialistica termina qui, tutto il resto è un abissale concentrato di letteratura. Tutto il resto è la fantasmagorica descrizione di una notte buia e piovosa, l’approssimarsi di una caserma che da fuori evoca la visione fradicia d’un galeone nella tempesta, dentro invece quella di una bettola in totale decadenza. Lì per l’appunto giunge la burba Ferdinand, con sprovveduta ingenuità e ancora in abiti civili, capro espiatorio perfetto delle gerarchie stanziali, delle brute consuetudini militaresche, immediatamente fagocitato in una spirale di frizzi e lazzi, incattivito dileggio, ottuse disposizioni; è il rude battesimo della disciplina, gioventù in balia degli altrui umori. Ciò che risalta maggiormente, attraverso il registro tragicomico adottato da Céline, è lo stridore di pennacchi e lucide armature, paramenti cordoni e sciabole – scrutato dalla prospettiva d’un letamaio circondariale – al cospetto del nuovo tempo avverso, del leviatano che rende obsoleto, poco meno d’un fardello ornamentale, il prestigio decaduto della cavalleria: tra sferragliare di bardature fuggono via i destrieri ammaestrati, scappano verso il buio stato brado, dimenticate le parole d’ordine, soldataglia ubriaca tra scoregge e scartoffie ottocentesche, nella confusione generale riecheggiano i vani tentativi d’un maresciallo di ripristinare l’ordine, tutto va a catafascio. Tutto sbrodola febbrilmente in un catino di melma e al lettore non resta che il dubbio, se piangere o ridere. O entrambe le cose.
La commedia di Charleroi
Se il nichilismo terragno di Céline ribolle di rocambolesche trovate e purulente esasperazioni, quello del connazionale Pierre Drieu La Rochelle assume connotati introspettivi, sofisticati e sovente estetizzanti, ma altrettanto irrisolti. La commedia di Charleroi (1934), tradotto magistralmente da Attilio Scarpellini per Fazi, si compone di 6 capitoli, gravitanti attorno al primo conflitto bellico ma debolmente collegati fra loro; il primo, che dà titolo al volume, assieme al secondo Il cane della scrittura, è indubbiamente il più ricco di pathos, quello che attraverso il ricorso al flashback vede l’io narrante, un giovane valoroso combattente parigino, alle prese con la guerra di trincea e le sue estenuanti attese, con quegli assalti incoscienti, la vita che scherza con la morte per continuare a considerarsi tale, l’idealizzazione di una tensione eroica radicalmente individualista (Nietzsche quale mentore) frustrata al cospetto dell’impersonalità grigiastra della truppa, del soldato che sognando un assalto romantico col coltello tra i denti si ridesta inquadrato, prudente, avendo a cuore la propria pelle. Drieu il dandy, da par suo più volte ferito anche a Verdun, si porta appresso il fardello di un patriottismo messo sotto scacco: chi è il nemico? Chi ne reclama la morte? Non è forse la guerra delle nuove macchine fiammeggianti e della burocrazia degli uffici nelle retrovie, ad annichilire gli uomini in trincea? Fratricidio generalizzato, nell’irrilevanza del singolo milite caduto (difatti poi definito “ignoto”). L’odio per il tedesco distante pochi metri, è dettato che da spirito di sopravvivenza o da convinto nazionalismo? Domande assillanti quanto inopportune in battaglia, la ricerca del capro espiatorio che conferisce al testo una paradossale sfumatura pacifista, nonché l’embrione del futuro europeismo dello scrittore. Parafrasando Renè Girard e la sua teoria del desiderio mimetico, in battaglia appare nitida la visione del gemello, dello specchio da infrangere. Narciso, nel caso della prosa egocentrica di Drieu La Rochelle, il quale indugia in quella contraddizione esistenziale – tra decadenza borghese e velleità eroiche, tra esasperato individualismo mondano e mistiche tentazioni d’autoannullamento – che caratterizzerà sempre più la sua cifra stilistica: “Tutto è snobismo. Lo snobismo è l’unica soluzione possibile per chi vive solo di immaginazione. E di un’immaginazione rivolta soltanto al passato. Lo snobismo è sempre la ricaduta in un passato qualunque. La gente di oggi riesce a interessarsi solo al passato ed è sufficiente che una cosa sia passata perché si interessi ad essa. Appena esiste un passato qualsiasi, attorno ad esso si forma uno snobismo”. A corollario non mancano le femmine, quelle di Drieu un po’ mamme e un po’ puttane, i costanti propositi suicidi, poi il traditore, la figura romantica del disertore, la crocerossina filantropa carica di onorificenze, l’amico americano tentatore d’espatrio e l’esotismo dei musi neri nei Dardanelli. Fiandre, Italia, Marsiglia labirintica, Sudamerica da diplomatico, muta il teatro ma non lo sguardo indagatorio del tormentato protagonista inseguito dai suoi spettri: altrove Alain, Gilles, Costant e gli altri alter-ego, maschere irrequiete di uno scrittore, pur succube del suo talento, in grado di sedurre contemporaneamente vita e morte.
Nelle tempeste d’acciaio
Passiamo ora alla trincea opposta. All’epoca dell’occupazione tedesca di Parigi il Capitano Ernst Jünger ebbe modo di frequentare, tra gli altri, anche i due scrittori francesi summenzionati. Così narra il 16 novembre del 1943, nel diario Irradiazioni: “Di sera all’istituto tedesco. Vi era lo scultore Breker con sua moglie, che è greca; inoltre la signora Abetz e le simpatiche figure di Abel Bonnard e Pierre Drieu La Rochelle, contro il quale nel 1915 ho scambiato colpi di fucile. Inoltre penne vendute, esseri che non si possono toccare neppure con le molle. Tutto questo ribolle in una miscela di interessi, di odio, di paura: taluni portano già sulla fronte le stimmate di una morte ignominiosa. Céline, con le unghie sporche: entro ora in una fase nella quale la vista dei nichilisti mi diviene fisicamente insopportabile”. Il francofilo Jünger e il germanofilo Drieu dunque, i quali cavallerescamente s’intendono, tipologie umane affini nonostante le conflittualità dei rispettivi popoli, mentre il reietto e poco salottiero Céline inveisce contro il consorzio umano tutto auspicando stragi. Retrocedendo al 14-18, nostro filo conduttore, ci si imbatte in quella che, a parere dello scrivente, può essere considerata l’opera a tema bellico più importante di sempre; Nelle tempeste d’acciaio, nonostante l’imponente mole e la sobrietà della prosa anche dinnanzi al puro orrore – visione clinica, geometrica, talmente lucida da generare una sorta di allucinazione iperrealistica alla lettura -, è libro che non dà ne ha tregua. Gli elementi di tensione che contraddistinguono l’incessante flusso di radiografie belliche, di nitidissime fotografie mortuarie, testimonianze di devastazioni e corpi a brandelli, esulano da qualsiasi forma di enfasi, sentimentalismo o d’accomodata retorica ricostruita a cose fatte. Non v’è spazio per il superfluo letterario non v’è tempo per l’abbellimento, tantomeno per lamentazioni o effetti speciali, giacché il vissuto oltrepassa il sopportabile, portando la condotta delle prime linee al limite estremo del controllo nervoso; ma Jünger riesce a raggelare il fuoco e l’esperienza combattiva che racconta fa lo stesso effetto, pagina dopo pagina, di un’ustione da gelo. Disciplina teutonica e azioni ardimentose guidate dall’intuito – sprezzo del pericolo come atto talvolta arbitrario, protetto dal fato – s’alternano a momenti di svago, allorquando il fumo della pipa, l’aroma forte del caffè e opportuni liquori riscaldano il cuore avventuroso, altresì restando impassibili mentre a pochi passi una bomba distrugge una casa, maciullando gli astanti; il portamento aristocratico dell’autore/soldato, lo spiccato senso dell’onore, permeano, anche tenendo conto di talune minuzie, finezze da dandy armato, tutta l’opera generando tra i compagni di ventura – sottoposti e superiori – un alone di carismatica saldezza. Lutti di fratelli in armi, stragi, distruzioni, ebbro all’assalto o infreddolito nel pantano, piombo nel corpo (ferito quattordici volte), onorificenze, vittorie e più gravose sconfitte vengono esposte dallo scrittore di Heidelberg oggettivamente, inaugurando nella bufera di ferro e fuoco quel suo peculiare stile cosmogonico, capace di trovare sottili specularità tra l’aquila e la farfalla, di proporre una sintesi lucida tra macrocosmo e microcosmo, ai tempi disumani del dominio della tecnica.