«Io sono una fiamma che aspetta! / Va’, passa fratello, corri, a riscaldare / la gelida carcassa / di questo vecchio mondo!»
Con questi versi di sapore futurista si conclude il lungo poemetto in versi liberi (249 versi) L’incendiario di Aldo Palazzeschi (1905-1974), che dà il nome all’omonima raccolta di poesie pubblicate nel 1910 per volontà e interessamento di Marinetti, al quale la poesia è dedicata. Prima d’allora Palazzeschi aveva pubblicato a sue spese tre raccolte, di cui due, Lanterna e Poemi, erano state stampate da un’immaginaria casa editrice, la Cesare Blanc, che era poi il nome del suo gatto! Curiosamente il poeta ripubblicò nel 1913 L’incendiario con la sottrazione e l’aggiunta di vari poemetti (tra cui autentici gioielli come La passeggiata e Chi sono?), provvedendo però a ridurre l’omonimo poemetto a 36 versi. L’edizione definitiva delle Poesie nel 1930 segnò il suo lungo distacco dalla poesia. Dopo di allora l’autore infatti non scriverà quasi più poesie, dedicandosi alla prosa per quasi quarant’anni fino alle tarde e minori raccolte di Cuor mio (1968) e di Via delle cento stelle (1972).
Una poesia «teatrale»
Palazzeschi introduce nella letteratura italiana del Novecento, con un linguaggio semplice ed immediato, accentuato dall’impianto dialogico dei testi, che spesso sono vere e proprie pièces teatrali, una nota grottesca e ludica, un tono ironico e a volte beffardo, che libera la poesia da vieti accademismi, da forme incartapecorite, da paludamenti e infingimenti. Non a caso il poeta si interroga spesso sulla funzione e sull’identità del poeta (e del letterato) nella nostra società opulenta, consumistica, materialistica. Al poeta, che viene percepito dal pubblico come persona inutile, come «saltimbanco», come «incendiario mancato», alla poesia che viene giudicata come qualcosa di «molto volgare», come puro divertimento («certo è un azzardo un po’ forte / scrivere delle cose così, / che ci son professori, oggidì, / a tutte le porte», in Lasciatemi divertire) non resta allora che l’arma dell’ironia, dello sbeffeggiamento, del divertissment, che sole possono indurre ad una riflessione, ad un ripensamento, ad una ricerca di salvezza nell’interiorità.
È in verità la fantasia che fa valere i suoi diritti contro l’aridità del vivere borghese, contro la banalità e l’indifferenza del mondo. Come scrive magnificamente Francesco Grisi: «La fantasia è provvidenza umana che ci libera dal male».
Chi è l’incendiario?
Ma torniamo a L’incendiario. Nel poemetto ci sono due protagonisti: l’incendiario, per l’appunto, che rinchiuso in una gabbia, esposto al pubblico ludibrio e allo scherno d’una folla anonima, resta sempre in silenzio; e il poeta stesso, che dopo l’animato e incalzante dialogo della folla, si prende la scena e finalmente lo libera invocando la funzione catartica dell’incendio. Nel personaggio dell’incendiario indubbiamente «si proietta la protesta antiborghese dello stesso poeta» (Anna Mattei).
Alcuni critici, forse non a torto, hanno voluto vederci i tratti del Messia («Chi sa da che parte di mondo è venuto!»). L’incendiario è in ogni caso l’uomo d’azione, il rivoluzionario, il fondatore d’una religione, il condottiero, insomma quello che il poeta vorrebbe essere e non riesce ad essere. Il poeta infatti è un uomo del sogno, vive una (a volte dolorosa) scissione tra pensiero ed azione (en passant, questo è uno dei temi affrontati sia dal poeta argentino Borges: «Lasciami, o spada, usare con te l’arte; io che non ho meritato maneggiarti», sia dallo scrittore francese Pierre Drieu La Rochelle, ad esempio nel romanzo L’uomo a cavallo).
Nel presentarsi, il poeta dice di sé: «Anch’io sai, sono un incendiario, / un povero incendiario che non può bruciare, / e sono come te in prigione. / Sono un poeta che ti rende omaggio, / da povero incendiario mancato, / incendiario da poesia».
Ma questo suscitare l’azione generosa che bruci il mondo, «le vecchie reliquie tarlite», o perlomeno raccontarla con forza evocativa, è uno dei compiti della poesia. «Il tema dell’incendio […] viene svolto […] sia nell’ambito di una vera poetica in nuce (la poetica dello “zolfino”: la poesia che appicca il fuoco per rigenerare l’uomo e la società), sia in quello utopico (strettamente legato al primo ma forse di un qualche spessore politico-agitatorio), e cioè di un sogno palingenetico» (Giuseppe Nicoletti).
Se il sogno poetico senza l’azione si rivela sterile, l’azione senza il sogno, senza un briciolo di poesia, si degrada ad un attivismo senza costrutto e senza speranza.
@barbadilloit
Sarà che le sorelle Materassi hanno una forte valenza onirica, ma solo a sentir parlare di Palazzeschi sbadiglio…