Il momento, in apparenza, è il meno adatto per “scommettere sul futuro”. Viviamo day by day, travolti dai numeri del contagio Covid19, dagli indicatori di rischio, dai report sulla mortalità, dalle emergenze ospedaliere. La sovraesposizione mass mediatica, l’informazione in tempo reale, non può tuttavia significare lasciarsi cullare da una sorta di attendismo infinito, da un pessimismo fatalista e usurante, tra timore del contagio e crisi economica, crollo del Pil e blocco delle merci e degli scambi. Occorre sconfiggere l’epidemia, ma anche pensare “al dopo”. “Non sprechiamo questa crisi” (Laterza) – titola il recente saggio di Mariana Mazzucato: un invito peraltro già ascoltato, allorché – era il 2008 – gli Stati Uniti e poi l’Europa furono travolti dalla “grande recessione”, quella della crisi dei subprime e del mercato immobiliare. Anche allora ci fu chi invitò a non “sprecare” la crisi, affrontando i fattori strutturali del ritardo italiano. In realtà si fece poco o nulla.
Qualche settimana fa “The Economist” (Italy SpA offers an object lesson in corporate decline, 24 ottobre 2020) ne ha fatto oggetto di un’inchiesta dettagliata, rilevando come dopo la crisi finanziaria del 2008-2009 l’Italia non si sia mai veramente ripresa. Per l’autorevole settimanale economico britannico “Tre ragioni principali spiegano la caduta dell’Italia delle imprese nell’irrilevanza. Hanno a che fare con una carenza di capitale finanziario, sociale e umano, che si autoalimenta (…) il 7% delle società non finanziarie è a rischio di insolvenza quest’anno”.
Al centro dell’analisi le debolezze della classe dirigente (non solo politica), il sostanziale immobilismo del sistema (“Piuttosto che migliorare l’infrastruttura fisica e legale che aiuterebbe tutte le aziende, i soldi del governo vanno a salvare i fallimenti perenni. Quest’anno lo Stato ha salvato ancora una volta Alitalia, compagnia di bandiera in continua perdita. L’Italia non ha equivalenti agli istituti Fraunhofer che aiutano le medie imprese tedesche a rimanere all’avanguardia nei loro campi”), lo scarso sforzo al rinnovamento e all’innovazione aziendale, a partire dai vertici (“oltre metà delle imprese italiane di prima generazione ha un proprietario-capo che ha più di 60 anni e un quarto uno che ne ha almeno 70. I membri dei consigli di amministrazione italiani sembrano antichi quasi quanto l’arte del Rinascimento che adorna i loro muri”).
Nel contempo questi ritardi vanno di pari passo con le trasformazioni determinate dalla nuova rivoluzione tecnologica, dalle sfide della robotizzazione, dalle applicazioni dell’Intelligenza Artificiale (AI). Siamo in una fase di passaggio epocale. Bisogna esserne consapevoli, attivando le doverose contromisure. Da qui l’invito a “pensare al dopo”, a confrontarsi con le trasformazioni in atto, ad accettare la sfida “non sprecando questa crisi”. Questa rubrica nasce con questa ambizione di fondo. Aprire tante finestre sul domani, invitando a non farci travolgere (anche psicologicamente) dalla crisi in atto, quanto piuttosto accettando la sfida del cambiamento. Un cambiamento che sia però consapevole, che guardi al futuro senza perdere di vista i valori fondanti della nostra civiltà, che coniughi Tecnica e Socialità, che denunci i ritardi “di sistema”, ipotizzando possibili vie d’uscita. Senza velleitarismi – sia chiaro – senza superficialità o pressappochismi, ma con la chiara determinazione che nasce dalla consapevolezza di idee, principi, riferimenti che fanno parte del nostro retroterra culturale, ma che debbono misurarsi con le trasformazioni in atto.
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Il PIL italiano a fine 2020 sarà di 1600 miliardi
Il nostro futuro è già alle spalle