Il 16 novembre ricorre il 29° anniversario della scomparsa di Ciccio Franco, un nome che ai più dirà molto poco, se non per l’assonanza con una celebre coppia di comici del passato. Non a Reggio Calabria, dove Franco è ricordato con una stele sul bellissimo lungomare cittadino. E non a chi ha avuto la ventura di leggere l’ottimo libro di Alessandro Amorese intitolato “Rivolte” e pubblicato nei mesi scorsi dall’etichetta toscana Eclettica Edizioni.
Il volume di Amorese, che è un perfetto esempio di come si possa fare una seria indagine a cavallo fra giornalismo e ricerca storica, va a ripescare nei cassetti della storia italiana del Novecento sei episodi ormai dimenticati o, in certi casi, pressoché sconosciuti, vale a dire le rivolte che scoppiarono a cavallo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta in alcune città del Mezzogiorno. L’ultima delle quali – la più nota – è quella che per quasi un anno trasformò Reggio Calabria in una specie di Belfast italiana, con i blindati dell’esercito per strada a rimuovere le barricate e garantire “l’ordine” voluto da Roma. La rivolta dei “boia chi molla”, impersonati appunto dall’allora oscuro funzionario della Cisnal Ciccio Franco, diventato in pochi giorni uno dei leader della sommossa.
Sud ribelle
Oltre al fenomeno reggino, al quale Amorese dedica quasi metà del libro, “Rivolte” ci fa anche conoscere episodi considerati minori che sul finire degli anni Sessanta infiammarono alcuni centri del Sud Italia e misero in dubbio l’efficacia delle politiche del centrosinistra a trazione democristiana. Fiammate localistiche, in certi casi, che nulla ebbero a che spartire con il fenomeno dell’“autunno caldo” e delle lotte politico e sociali avviate nello stesso periodo al Nord dalle classi operaie trainate dal Pci e dai movimenti giovanili dell’area extraparlamentare di sinistra.
Ad Avola (Siracusa), Battipaglia (Salerno), Caserta, Pescara e Aquila, anzi, il Pci e la sinistra finirono ben presto nell’elenco dei nemici da combattere, a fianco dei ministri democristiani e socialisti accusati di aver svenduto quei territori a logiche partitocratiche e lottizzatrici. E il tratto distintivo delle ribellioni, anche violente, fu invece un’estrema identità territoriale (a volte vicina al localismo), un diffuso interclassismo dei partecipanti, il rifiuto dei partiti “di Roma” e la massiccia presenza di esponenti locali legati al Msi e ad altri movimenti di destra come Avanguardia Nazionale. Tant’è vero che, soprattutto a Reggio, quando i dirigenti comunisti si renderanno conto di non poter “mettere il cappello” sulla rivolta, finiranno per bollare il fenomeno come “teppismo fascista” e si uniranno al coro di democristiani e socialisti nell’invocare la repressione e il pugno duro da parte del ministro dell’Interno Franco Restivo.
Differenti le micce che hanno acceso le polveri (la repressione dei braccianti agricoli in sciopero ad Avola, la retrocessione a tavolino della squadra di calcio appena promossa in serie B a Caserta, la chiusura di uno zuccherificio a Battipaglia e le beghe interregionali per la nascita dell’ente Regione in Abruzzo e in Calabria), ma uguali le risposte della piazza di fronte alla sordità dei politici locali e nazionali nelle istituzioni: sassaiole, barricate, autobus incendiati, sedi di partito dati alle fiamme. Reazioni forse eccessive, di sicuro sintomo di un rapporto ormai logoro dopo oltre vent’anni di promesse non mantenute dalla Repubblica italiana incarnata dallo scudocrociato.
La reazione delle comunità locali
Ciò che sorprende, leggendo le pagine di “Rivolte”, è comunque la capacità di quelle comunità locali (in alcuni casi micro-comunità, come ad Avola e Battipaglia) di reagire subito e in prima persona alle ingiustizie, ad esempio lo “scippo” del capoluogo della Regione Calabria perpetrato nei confronti di Reggio dai politici nazionali di Catanzaro e Cosenza, nel corso di riunioni quasi carbonare che si erano tenute a Roma, tagliando completamente fuori dal dibattito la popolazione calabrese. Capacità di reazione che al giorno d’oggi sembra completamente esaurita, e non solo nel Mezzogiorno.
Di fronte a una condizione di generale recessione economica, di sottrazione di diritti sociali e di privazione di sovranità politica (per non parlare della “democratura” instaurata ormai da dieci mesi per l’emergenza sanitaria del Covid 19), la reazione popolare sembra ormai limitata allo sterile mugugno sui social. In piazza non ci va più nessuno, a parte inutili frange di teppisti a caccia di vetrine da infrangere e capi firmati da rubare. E a cinquant’anni da quelle rivolte, come scrive nella prefazione del libro Angelo Mellone, «il Sud sempre più immobile e lamentoso è sempre là. Il Sud fermo sulle medievali monorotaie adriatiche, sui lavori della Salerno-Reggio Calabria o della Basentana, sulle ore che servono per andare in treno da Napoli a Bari o da Catania a Palermo. (…) Il Sud sempre pronto ad ammirare se stesso per cibo, sole e supposta qualità della vita».
Ma non sarà che quei fermenti nazional-popolari sono stati ‘a destra’ troppo enfatizzati? In realtà non erano legati ad una concezione deteriore della politica pubblica prebendaria, assistenzialista, clientelare ecc.? Ad una visione incentrata su uno statalismo anacronistico e precapitalistico, in fondo ad un meridionalismo asfittico, alla de Mita, fonte di molti mali (e non so di quali beni)?
Surfeando sui (o nei) social io per la verità – tranne in quelli più schierati e sempre a rischio oscuramento – io scorgo molto conformismo ‘cattocomunista e liberal, al solito (espresso da mugugni), ed assai poco non dico ribellismo, ma neppure reazione forte, al di là della sterile lamentosità che è rimasta al sud ed è dilagata pure al nord… In ogni caso per un post non ‘politically correct’, 100 ce ne sono aderenti al pensiero unico sardinesco, gretino, genderfluid, pontienonmuri, antifa ecc. Vorrei sbagliarmi.