«Quante parole stanche / mi vengono alla mente / in questo giorno piovoso d’aprile / che l’aria è come nube che si spappola / o fior che si disfiora. / Dentro un velo di pioggia / tutto è vestito a nuovo. / L’umida e cara terra / mi punge e mi discioglie. / Se gli occhi tuoi son paludosi e neri / come l’inferno, / il mio dolore è fresco / come un ruscello.»
Questa poesia di Vincenzo Cardarelli (1887 – 1959), intitolata Aprile e tratta dal volume Poesie, è tutta giocata sul contrasto tra le sensazioni di leggerezza indotte da una giornata piovosa d’aprile e la sofferenza d’amore che tormenta il poeta. «Amore e primavera vanno insieme», dirà il poeta in un’altra lirica. Cardarelli è il poeta delle stagioni, dello scorrere del tempo, del mistero d’amore colto nel suo sbocciare e nel suo improvviso finire. Le stagioni, i paesi della Liguria, Venezia, l’adolescente, i gabbiani sono tutte occasioni colte dal poeta per simboleggiare il destino umano. Con suggestioni nicciane Cardarelli riscopre la solarità e il meriggio che alludono ad una pienezza vitale e sembrano donare all’uomo «nell’ordine che procede / qualche cadenza dell’indugio eterno» (Estiva). In un’altra delle sue poesie, Saluto di stagione, dirà: «Io che non spunto a febbraio coi mandorli, / […] e sento il limite e il male / che incrinano ogni cambio d’ora, / saluto nel sol d’estate / la forza dei giorni più eguali».
Una triade dei poeti del primo Novecento
I suoi versi sono eleganti, piani, armoniosi e si inseriscono nella linea lirico-meditativa tracciata da Leopardi. En passant: se volessimo proporre una triade poetica rappresentativa della poesia italiana del primo Novecento potremmo indicarla senza dubbio in Ungaretti, Quasimodo e Cardarelli. Ungaretti (il primo, quello, per intenderci, del Porto sepolto e dell’Allegria) per la forza rivoluzionaria della parola poetica e la rottura con una tradizione ormai sclerotizzata. Quasimodo per la musicalità che pervade i suoi versi e, in particolare, per le sue traduzioni dei lirici greci. Cardarelli per aver unito magistralmente classicità e modernità, lirismo e meditazione. Non Montale o Saba, come pure da alcuni viene proposto, perché il primo ci sembra troppo aulico, troppo ricercato, a volte artificioso, l’altro perché i suoi versi non fuoriescono che rare volte da una certa banalità.
Modernità e tradizione
«Fondere modernità e tradizione, fondere la “forma” e il “contenuto” in una lirica discorsiva di parole poetiche sono gli elementi costitutivi dell’opera di Cardarelli» (Milvia Naja). Contro i «manieristi della poesia» (Pascoli, D’Annunzio, Montale), contro le intemperanze futuriste e le acrobazie formali ed espressive dell’ermetismo, Cardarelli recupera una dimensione classica.
Potremmo chiederci: fu sempre fedele al modello classico il poeta di Tarquinia? «In realtà, la sua opera è per certi versi una smentita della sua poetica» (Marina Corona). Il suo classicismo però, che lo portò ad aderire al fascismo e al ritorno all’ordine, non è mai passatismo, supina acquiescenza alle usurate forme tradizionali. È insieme continuità e rinnovamento. È composta naturalezza. «La scorrevolezza e la musicalità sono affidate al ritmo piuttosto che alla rima e al metro. La maggior parte delle liriche sono infatti strutturate sul verso libero, anche con una predilezione per la versificazione classica della letteratura italiana, cioè l’endecasillabo e il settenario» (Milvia Naja).
È il ritmo, è la piccola musica delle parole poetiche, a differenziare la poesia dalla prosa. A chi lo accusava di essere un poeta discorsivo Cardarelli in uno dei suoi ultimi scritti Il viaggiatore insocievole del 1953 ribatteva che l’accusa era per lui un motivo d’orgoglio: «per aver voluto, nella mia poesia, che l’elemento musicale e lirico non escludesse il rigore logico, il linguaggio espressivo, l’ortografia ordinaria […] io sono stato definito da alcuni, con disprezzo, poeta discorsivo […]. In Dante, in Petrarca, in Leopardi, “ragionare” è sinonimo di poetare […]. Chi mi chiama poeta discorsivo offende la mia modestia. Non sa fino a qual punto io potrei gloriarmi di questa definizione».
Quando insegnavo nella prima classe delle superiori, e il rientro in classe coincideva col solstizio d’autunno, la prima poesia che facevo leggere era proprio Autunno di Cardarelli. Ho sempre stimato il poeta di Autunno, non perché avesse aderito al fascismo (al fascismo aderì anche il grande Ungaretti, e Quasimodo fu nominato docente nel Conservatorio di Milano, pur senza titoli di studio adeguati, da Bottai), ma perché ripubblicò integralmente le sue liriche anche dopo il crollo del regime, compresa “Camicia nera” (la ripubblicai nel mio volumetto antologico Anni Trenta: me l’aveva segnalata Giano Accame). Oltre a questa orgogliosa coerenza, non ha giovato alla fortuna di Cardarelli il suo pessimo carattere, divenuto proverbiale: di lui si diceva che era una persona su cui si era sicuri di non poter contare. Ma fu un grande, forse l’ultimo dei nostri classici, come qualcuno aveva scritto di Gozzano.
Alla terna suggerita dall’Autore io però contrapporrei una quaterna: bene Ungaretti, Quasimodo – oggi a torto dimenticato, – lo stesso Cardarelli, ma anche il “primo” Montale, non quello delle Occasioni o peggio ancora di Satura, prolisso e autoreferenziale.