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Communication manager? No, grazie. Il giornalista, vero, non si improvvisa

Una riflessione sulla regolamentazione per salvare futuro e credibilità della professione giornalistica

by Marco Petrelli
1 Novembre 2020
in Cronache
1
Giornalismo

“Oggi sono tutti manager. Prendete uno che pulisce i gabinetti: non è un pulitore di gabinetti è un executive toilette manager”. Esordiva così  un comico italiano in uno spettacolo teatrale. 

Verissimo: il ricorso massiccio a parole anglofone ha permesso la nascita di una serie infinita di professioni, il più delle volte esistenti solo su carta grazie ad elaborate associazioni di termini… con “manager” finale. 

“Web communication manager”, “strategic communication manager”, “social media & Communication manager”, “lavora presso, fotografo professionista manager di se stesso”: la colonnina sinistra di Facebook è ormai l’antro delle meraviglie di aspiranti… come chiamarli? Comunicatori? Il cui primo interesse è tuttavia dare di sé solo l’immagine di persone vincenti…

Forma vs Sostanza

E’ raro leggere solo “giornalista”, parola  magari meno cool di “manager”, ma che racchiude in sé la sostanza di una professionalità ad oggi a rischio a causa della concorrenza sleale del web.

Il ruolo, centrale, dei social network nel quotidiano di miliardi di persone porta infatti gli utenti ad informarsi attraverso post dai titoli eclatanti e pubblicati su blog che si definiscono giornali o sui canali di presunti “specialisti” dell’informazione. 

Non si può chiaramente pretendere che l’utente di una piattaforma social sappia di fonti primarie e di fonti secondarie di informazione. Certò però che un profilo che si presenti come  di un “web Communication manager” o magari come “direttore web news platform” possa indurre il lettore, in buona fede, a considerarlo una fonte attendibile. 

Comunicare o informare?

“È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti (…)” recita il primo paragrafo dell’articolo 1 del Testo Unico dei Doveri del Giornalista. 

Vero che un giornale, oltre ad informare, debba essere in grado di veicolare i contenuti: in ballo, infatti, c’è la sopravvivenza della testata e dei suoi lavoratori in un settore già in crisi e nel il quale il web divora terreno sotto i piedi della carta stampata. In altre parole sì, devi saper “parlare” per saper vendere. Ma non si può lavorare senza regole e senza un controllo: se per molte persone gli ordini professionali sono ormai una elefentiaca eredità del passato, va anche detto che essi rappresentano l’unico strumento capace di garantire un minimo di tutela e di controllo alle professionalità che rappresentano.

Una realtà dura

Se fregiarsi di titoli quali “avvocato”, “ingegnere”, “medico” oltreché disonesto è controproducente per le eventuali conseguenze, legali, cui si va incontro fregiarsi del titolo di “giornalista” sembra essere una cosa comune: “web journalist”, “columnist”, “citizen reporter”, “food journalist”, etc. Anche in questo caso l’inglese è tornato utile per inventare o per dare un margine di credibilità a figure professionali figlie delle mode e dei trend . Nonché per sopperire alla mancanza di essere né pubblicisti, né professionisti.

Situazione simile la si vive con i fotografi. La veloce diffusione dei cellulari con fotocamera ha infatti consentito a molti di improvvisarsi cine-foto operatori, categoria quest’ultima regolamentata dalla iscrizione all’Ordine dei Giornalisti. 

Eppure di fotografi professionisti – non iscritti all’Ordine – ce ne sono a bizzeffe. Gli stessi  ( è successo ) che nel corso di eventi puntano il dito contro i foto-giornalisti:

“Venite qui a rubarci il lavoro”

Verrebbe da rispondere il contrario, considerato che un giornalista paga una quota annuale, segue corsi di formazione obbligatori e deve quotidianamente confrontarsi con la concorrenza, sleale, di chi pretende invece di fare il “journalist” o il “photographer” senza titoli. 

Reprimere o regolamentare?

L’informazione deve essere e deve rimanere libera, dunque niente repressioni semmai prendere atto della presenza di nuove figure, tentandone però una regolamentazione. L’iscrizione ad un apposito elenco, ad esempio, aiuterebbe a tutelare quei social media manager dotati di professionalità e di competenza dai tanti avventurieri che cercano di sbarcare il lunario negli spazi infiniti della rete. 

Ulteriore intervento da considerare è l’equiparazione di “journalist” e di “reporter” a giornalista cosicché, chiunque si presenti tale senza averne titolo lo fa nella consapevolezza di abusare di una precisa qualifica e di andare incontro a conseguenze… spiacevoli. 

Infine, un’altra azione deve essere rivolta ai corsi online (e non) che, dietro pagamento, assicurano carriere nell’ambito della comunicazione. Di fronte ad una grande fame di lavoro, non mancano mai persone in buona fede pronte ad impegnarsi la camicia con la speranza di…  Investimenti  spesso onerosi che qualche volta danno i loro frutti (non tutti i “master” sono  corsi poco formativi), altre purtroppo sono un autentico specchietto per le allodole.

Regole, quindi, unico strumento salvare il futuro e la credibilità della professione giornalistica.

 

 

__________________________________

(Fonte immagine di sfondo: Foto di Alexas_Fotos da Pixabay)

Marco Petrelli

Marco Petrelli

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Tags: giornalismoSocial Media Manager

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Comments 1

  1. Enrico Nistri says:
    2 anni ago

    Secondo me, i problemi nascono dalla dilatazione delle iscrizioni all’Ordine dei Giornalisti, elenco professionisti, e dalla proliferazione delle Scuole di Giornalismo. Una volta per diventare professionisti (lo scrive uno che ha seguito altre strade) bisognava fare il praticantato in una “vera” testata. Dopo, divenuti praticanti e superato l’esame (non molto selettivo, nonostante qualche clamorosa bocciatura, e comunque replicabile), si entrava all’interno di una categoria ben tutelata, professionalmente ed economicamente. I “paria” eravamo noi pubblicisti, che comunque l’Ordine difendeva con il tariffario, i pareri di congruità nel caso di contestazioni con gli editori e con molte piccole provvidenze, ferroviarie e postali. Ora l’Ordine mi sembra a volte più un organo di censura e autocensura di chi scrive sui giornali, i piccoli e gr andi benefici non ci sono più , i compensi sono crollati e internet ha rotto definitivamente gli argini. Poi ci sono i soliti piccoli e grandi furbetti che giocando con le parole abusano dei titoli. Ma questo forse è il male minore…

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