CONTRO HALLOWEEN
Ci siamo quasi. Domenica prossima, sarà la festa di Ognissanti, seguita dalla commemorazione dei defunti. Quest’anno la frequenza nei camposanti sarà ancora più debole del passato a causa del Covid-19. Certo comunque il culto dei trapassati è in forte ribasso: a deprimerlo congiurano, uniti, il progresso della “laicizzazione” e della “secolarizzazione” (cioè dell’ateismo) e la scaramanzia che ci obbliga a non parlare mai di morte e di spettacoli correlati: salvo quando si tratta dell’horror commerciale di cinema e di TV, che “fa cassetta” e che invece di spaventare diverte, senza più far neppure caso al divieto riservato ai minori di 14 anni.
Certo, c’è da chiedersi che fine farà la “festa” di Halloween, viste le restrizioni dovute all’epidemia. Forse quest’anno saremo graziati da quella squallida parata di pessimo gusto minorile: non tutto il male sarà venuto per nuocere.
Ma il problema resta. E restano le contraddizioni.
Identità. Ne parlano tutti, specie certi gruppi di centrodestra. È diventato un segnale di appartenenza, un passaporto. Càpita dunque d’intervenire a focose riunioni nelle quali si viene esortati a lottare contro l’ipotesi che le nostre belle colline si riempiano di minareti, l’esotica silhouette dei quali rovinerebbe l’antica armonia dei nostri paesaggi con gli skylines dei preziosi, agili campanili e delle solenni, severe torri medievali.
Forse sarebbe facile obiettare che anche nel V secolo, alla gente abituata alle purissime linee dei templi di tradizione grecoromana, quegli ineleganti cosi sormontati da rumorose campane dovevano piacere proprio pochino. Oltretutto, erano contro la tradizione. Poi, ci siamo abituati. E le tradizioni sono mutate: perché le tradizioni sono dinamiche, hanno un loro metabolismo, sono tutt’altro che sempre uguali a se stesse. E magari, come diceva oscar Wilde, è vero altresì che “una tradizione è un’innovazione ben riuscita”.
E si potrebbe inoltre far osservare, a chi oppone al diritto alla libertà di culto da parte di musulmani che sono ormai, sempre più spesso, cittadini italiani a tutti gli effetti, che non si capisce perché le riserve di carattere estetico-paesistico nel nome delle quali dovremmo opporci ai minareti (che non è detto siano né troppo alti, né per forza ispirati a un kitsch falso-orientale) non è mai valsa né per i discutibili McDonald’s, né per gli orribili centri commerciali, né per gli infami grattacieli che deturpano tanta parte dei nostri litorali, né per le spesso intollerabili villette a schiera, né per le oscene file delle pale eoliche che rovinano i profili di tante nostre già belle alture rocciose o boscose.
Ma siamo evidentemente fatti così: vi sono tradizioni che siamo pronti a difendere con le unghie e con i denti e altre che abbandoniamo senza nemmeno rendercene conto.
Molte di quelle religiose e civili, ad esempio. E riprendiamo il discorso che avevamo iniziato. Fino a qualche decennio fa, l’inizio di novembre era dedicato prima alle feste di Ognissanti, con le sue gaie fiere e i suoi dolci tipici; quindi, il giorno dopo, alla celebrazione dei defunti, durante la quale si visitavano i cimiteri e ci si portavano anche i bambini, ché imparassero a onorare tutti i loro cari, compresi quelli che non avevano mai conosciuti.
Ma erano vecchiumi confessionali, dei quali ci siamo fortunatamente quasi del tutto liberati. In cambio, ai primi di novembre ci diamo a una divertente kermesse macabro-infantile: tra zucche vuote e ghignanti di lucine cimiteriali, bambini abbigliati da deliziosi scheletrini, da ammiccanti streghette e da pallidi vampirucci – con qualche contorno di diavoletti e fantasmelli –, si aggirano tra noi ponendoci in più o meno improbabile inglese la fatidica domanda, “Trick or treat?”, dolcetti o scherzetti? Meglio esaudire le loro richieste: perché in caso contrario si rischiano ritorsioni anche infantilmente feroci, tipo incursioni contro i fiori in giardino, pipì sulla soglia di casa, petardi legati alla coda del gatto domestico, graffi alla carrozzeria dell’auto.
È Halloween, vale a dire – con maggior precisione – All-Hallow-Eve, che letteralmente vuol dire (toh!…) “Vigilia di Ognissanti”. Ma come? Si è fatto tanto per liberarci da una noiosa festa ecclesiastica di segno cattolico, e ora ce la ritroviamo tra i piedi in salsa yankee? E non succede solo da noi: proveniente dal New England, oggi la macabra festicciola impazza in gran parte del mondo, Russia e India comprese. Che cos’è mai accaduto?
Nulla di speciale. Semplicemente, la migrazione di simboli e di rituali che hanno davvero fatto un giro ampio, prendendola molto larga.
Spieghiamoci meglio.
Tanto per cominciare, sulla “lontananza” e l’“estraneità” varrebbe la pena di discutere un po’. Da più parti è stato notato come anche in paesi dalle tradizioni fino ad oggi cattolicissime, quali la Sicilia o il Messico, la festa liturgica di Ognissanti e la solennità dei defunti, che le tiene dietro, sono celebrate in modo sotto certi versi analogo a quanto fino ad alcuni anni fa accadeva nel New England: maschere da teschio e dolcetti a forma di ossi umani venduti sulle bancarelle, ad esempio. Ma in Sicilia sembra che l’usanza risponda alla cristianizzazione di antiche festività greco-pagane, in Messico a quella delle solennità azteche delle divinità dell’oltretomba. Certo, nel Cinquecento gli spagnoli, a loro volta abituati a certi rituali un po’ macabri, se li sono ritrovati davanti dall’altra parte dell’Atlantico: e li hanno riportati indietro.
Ma c’è di più. E qualcosa di molto preciso. Per comprenderlo, bisogna rifarsi al X-XI secolo d.C. e all’Europa celtica di quel tempo: larghe aree della Gallia ormai divenuta Francia e della Britannia ormai divenuta Inghilterra erano sì state invase da popoli germanici e soggette a una sistematica cristianizzazione, ma ciò non significava che gli antichi abitatori celti – in special modo in Irlanda, nel Galles e in Scozia – avessero rinunziato alle loro tradizioni. È più facile mutar religione, quindi cambiar divinità e sistema teologico, che non riti, culti e costumanze.
Nel mondo celtico pagano, che tra VI e III sec. a.C. era esteso dal Portogallo al Caucaso ma successivamente si era andato restringendo dalla Scozia e dalla Bretagna al corso del Reno, si era soliti organizzare l’anno secondo un calendario lunare che lo ripartiva in tre grandi stagioni: la primaverile-estiva tra marzo e giugno, l’estivo-autunnale tra luglio e ottobre e l’autunno-invernale tra novembre e febbraio. Tale ultima stagione iniziava con la festa di Samain, consacrata alla natura che si andava addormentando nel letargo della fredda stagione e dedicata al culto degli antenati. Si riteneva che nei primi giorni del novembre i confini tra vivi e morti si annullassero e che gli antenati tornassero alle loro famiglie, che li onoravano con offerte votive.
Niente di strano, del resto: greci e latini conoscevano feste analoghe, come le anthesteriai in Atene nel febbraio. Tali riti, collegati a credenze del rapporto tra vivi e morti, si sono conservati alla base del nostro carnevale. Ma la festa celtica degli antenati era all’inizio di novembre.
I missionari cristiani avevano lottato contro quei riti pagani: ma invano. I bravi contadini celti, divenuti intanto buoni cristiani, avevano mantenuto le loro usanze per quanto andassero progressivamente perdendo memoria del significato delle cerimonie che pur continuavano a celebrare.
Spettò ai monaci di Cluny, commossi per tale fedeltà e convinti che il culto dei trapassati fosse in sé un bene, ma tuttavia decisi a spogliarlo dei residuali contenuti idolatrici, l’organizzare un tipico esperimento di quelli che gli antropologi definirebbero “acculturazione”: mantenere i sacrifici espiatorii in suffragio dei defunti, inquadrandoli però in un contesto liturgico e santorale cristiano; e dedicare quindi ai santi e ai morti i primi due giorni del novembre.
Nacquero così, sul ceppo celtico ma con spirito cristiano, la festività di Ognissanti e la solennità memoriale dei morti, rafforzata dal diffondersi della credenza nel Purgatorio.
I “Padri Pellegrini” inglesi e scozzesi – puritani e presbiteriani, quindi calvinisti – che nel Seicento colonizzarono il Nuovo Mondo, si portavano dietro la tradizione di Halloween, cioè d’Ognissanti: ma, in seguito alla Riforma protestante, essi avevano rinunziato a qualunque forma di culto dei santi e di ritualità. Per loro, quel lontano residuo pagano era soltanto una tradizione superstiziosa d’origine demoniaca. Ed ecco il carattere “trasgressivo”, quasi diabolico, di quella celebrazione spogliata di qualunque sacralità pagana ma anche di riferimenti cristiani; ecco le “storie nere” che l’accompagnano, e che hanno dato vita a innumerevoli films, o fictions, o “giochi di ruolo” sul genere horror.
È quindi, a parte altre numerose considerazioni che pur sarebbe legittimo fare, abbastanza ridicolo che in un paese cattolico nel quale da oltre un millennio si celebrano le solennità dei santi e dei defunti si accolga, “di ritorno”, una consuetudine che il rigorismo calvinista ha respinto nelle tenebre delle superstizioni e che associa un revival satanico a un background laicizzato e ateizzato.
In effetti, Halloween è una piccola buffonata consumistica: dietro la quale si nasconde tuttavia un nonsenso da combattere con tutte le forze, nel nome dell’ortodossia cattolica, della coscienza identitaria cristiano-europea, del buon senso e del buon gusto.
I cattolici dovrebbero, insomma, piantarla di truccare i loro bambini da demonietti, da scheletrucci, da streghine e da fantasmelli. Sarebbe necessaria al riguardo anche una rigorosa campagna di “pulizia dell’immaginario”, di liberazione dal kitsch sadofunebre ormai troppo diffuso specie nel cinema e in TV sull’onda dei cascami della cultura romantica passati attraverso il macabro alla Poe e alla Stoker. Tra 1 e 2 novembre, torniamo a condurre i nostri ragazzi e i nostri bambini a messa e a visitare i cimiteri, parliamo loro dei nostri cari che non ci sono più e dei quali essi probabilmente ignorano perfino i nomi: insegniamo loro a riallacciare di nuovo i legami che collegano tutti i figli di Dio nel nome della “Comunione dei Santi”, un’espressione teologica tanto sublime quanto oggi dimenticata e fraintesa; magari, a questi poveri bambini abbandonati davanti alla TV oppure a qualche squallido giochetto informatico, reinsegniamo le semplici parole del Requiem sia pur tradotte in italiano perché il latino si è perduto. E torniamoci sul serio, perdinci, alle nostre tradizioni; riscopriamola e tuteliamola davvero, perbacco, la nostra identità. Altro che lotta ai minareti!
Bell’articolo. Ma Cardini non può ignorare che il futuro (!) dei nostri defunti non è di finire sottoterra al cimitero, ma di essere buciati, passate le ossa al macinino, poi buttata la polvere… Giusto? Forse no, ma com’egli ben scrive, le tradizioni sono dinamiche. Avendo smarrito la fiducia nell’Apocalisse e nelle anime che si reincontrano con i corpi ecc, probabilmente è logico così… Tanto dai 60-70 anni in giù praticamente più nessuno va ai cimiteri, mai, convertiti in oasi d’impunità per vandali, ladri, satanisti…
La cosiddetta Festa di Halloween non è altro che un grande Treno Fantasma, sul quale andamo oltre 60 anni fa noi bambini, in piazza Vittorio… Non faceva né bene, né male, era divertimento, come i racconti delle ‘masche’ dei vecchi… Non sostituisce Ognissanti…
Ma come si fa ad opporre Ognissanti ad Halloween, a parte la coincidenza temporale?
Halloween è in fondo come il Carnevale. Una veneranda minchiata. Ma che male fa?
Anche l’Imperatore Guglielmo II approvò la sostituzione del latino con l’inglese nella gran maggioranza delle scuole superiori tedesche d’inizio ‘900…
E’ vero, Guglielmo II boicottò il latino a favore dell’inglese, che in fondo più che una lingua è un dialetto sassone degenerato. Ma non credo che la sua sia stata una buona scelta. Il ripudio di certi valori di humanitas di cui è depositaria la classicità condussero le nuove generazioni a quella reductio ad absurdum dei valori di patria e di nazione che fu il nazionalsocialismo. Fino ai primi del Novecento l’Europa esisteva come grande koiné perché i membri le classi dirigenti di tutte le nazioni avevano letto gli stessi classici, avevano declinato gli stessi sostantivi, avevano coniugato gli stessi verbi, sapevano leggere metricamente Virgilio e magari anche Omero. Un tedesco e un francese di allora avevano molti più punti di contatto alla vigilia della grande guerra di quanti non ne abbiano oggi e magari tutti e due si apprestavano ad andare in trincea con l’Iliade nello zaino.
Sì, Enrico, ma quella comunanza culturale (peraltro smentita nel 1914 dalla sciocca opposizione Kultur-Civilisation) non salvò dall’ammazzamento generalizzato, con o no l’Iliade nello zaino. Basta rileggere oggi alcune pagine, non dico di Marinetti o D’Annunzio, ma di Soffici, Papini, Prezzolini per restare agli italiani) per rimanere attoniti, di fronte all’odio nazionalistico nei confronti di vicini europei, bianchi, cristiani… e, naturalmente, viceversa. Stupidate replicate prima della WWII quando reclamavamo Nizza, Savoia, Corsica, Malta, Tunisia, Dalmazia ecc. quando nessuno (o ben pochi lì residenti) volevano diventare italiani… L’inglese ha il vantaggio che più o meno lo parlano tutti o almeno in inglese si fanno capire. Serve per comunicarsi. Noi italiani abbiamo lo svantaggio di parlarlo pochissimo, purtroppo, mentre nei Paesi più intelligenti lo insegnano a tutti dalla prima elementare, o dall’asilo, come una seconda lingua. Guglielmo II che era intelligente, anche se poco equilibrato, aveva ragione…Poi non importa molto, credo, la genesi dell’odierna lingua inglese, che la parli l’ordinario di Oxford o il taxista pakistano di Londra o l’uomo d’affari cinese…Ogni altra scelta oggi sarebbe anacronistica, inutilmente nostalgica. Il latino sarà lingua per pochi cultori, come il greco antico ed altre nobili lingue morte… Salutoni!
Non possiamo polemizzare su inglese, consumi, capitalismo ecc. Sarebbe come voler abrogare divorzio, suffragio femminile, ripristinare il ‘diritto d’onore’ ed i moderati castighi fisici per le donne…