La sua identità più profonda va senz’altro individuata nella “padanità”, una caratteristica che nei giorni scorsi abbiamo collegato alla narrativa di Alberto Bevilacqua, lo scrittore che del resto lo diresse in due film, La Califfa e Questa specie d’amore. Parliamo di Ugo Tognazzi, il grande attore del secondo dopoguerra di cui oggi ricorrono i vent’anni della morte.
«Io sono un padano – amava ripetere – e questo significa qualcosa di preciso. Quando l’impasto è buono, forse per via dell’orizzonte piatto e per via d’un giusto grado di umidità, dalle mie parti vien fuori un tipo umano fornito d’una logica molto concreta, positivo, lavoratore, magari lento ai riflessi ma anche con la sua voglia di godersi la vita…». Lamenta Bevilacqua: «Mi dispiace che Ugo, dopo la morte, sia stato inchiodato a stereotipi che non ne esprimono la vera essenza. Bisognava fare di più, e di diverso. Non inchiodarlo alla commedia all’italiana».
Le date della nascita di Ugo sono di per sé un richiamo di chiara evocazione novecentesca: l’anno, quel 1922 che poi sarà il primo di tutta un’era “rivoluzionaria”; il giorno, quel 23 marzo, che era il terzo anniversario dell’assemblea di Piazza San Sepolcro in cui nascevano i fasci di combattimento. E a Cremona quel giorno la signora Alba, moglie del rappresentante milanese Gildo Tognazzi, dava alla luce il primogenito Ottavio, costretto qualche anno dopo a cambiarsi il nome in Ugo, stanco degli sfottò dei compagni delle elementari. Ricorderà lui stesso nel bel libro autobiografico L’abbuffone (Avagliano) descrivendo il “suo” 1932: «Il 23 marzo era il mio compleanno: per festeggiare la ricorrenza mio padre ci portò tutti a Cremona. Io ero vestito da Balilla, mio sorella da Piccola italiana, mio padre in orbace». Da adolescente farà domanda per seguire i corsi premilitari in marina e, quando il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra, lui finisce a La Spezia, al comando superiore come furiere. Costretto, perché era marinaio ma non sapeva nuotare. Poi, il 14 aprile del ’43, la città viene bombardata dagli alleati e Ugo viene trasferito a Roma. In caserma arrova Lucio Ardenzi, famoso cantante dell’Eiar e Tognazzi viene reclutato come presentatore per spettacolini per i militari. Che fa anche negli ospedali, dove racconta barzellette e improvvisa imitazioni. È l’inizio della sua carriera. Dopo l’8 settembre, col tutti a casa, Ugo torna a Cremona, trova un impiego e continua a fare spettacoli. Il 5 dicembre ’43, Regime fascista, il quotidiano diretto da Roberto Farinacci, scrive: «Prossimamente al Politeama Verdi il gruppo d’arte varia “Primule” del Dopolavoro comunale il pubblico accoglierà certo favorevolmente la simpatica iniziativa dei giovani dilettanti cremonesi del microfono, fra cui il comico Ugo Tognazzi». L’auspicio è accolto. Tognazzi, ventiduenne, forma la sua prima compagnia che esordisce il 4 maggio ’44. Lavorerà anche per l’Eiar di Milano per il programma radio domenicale Cosa succede in Casa Rossi? nella primavera del ’45 mentre crolla un’epoca e se ne apre un’altra, Ugo passa da una compagna all’altra. «Da allora – dirà Tognazzi – cominciano cose tragiche per il lavoro d’attore. Sarebbe bene ricordare che cosa significava viaggiare da genova a Bari in carro bestiame, perché ancora non erano state ripristinate le carozze normali…».
Quindi il cinema e, alla fine degli anni Cinquanta, anche la televisione. Era il 1958 e Un, due, tre – il programma di varietà cominciato nel 1954 sull’allora unica rete televisiva della Rai – avviava con lui e Raimondo Vianello la prima forma di satira in tv. Nel 1958 il presidente Gronchi cade nel palco reale della Scala, durante la visita ufficiale di De Gaulle. In diretta Tognazzi mima di cadere e Vianello gli dice: «Ma chi ti credi di essere?». Basterà per licenziarli entrambi. La censura democristiana ebbe i suoi primi epurati, qualche anno dopo toccherà anche a Totò, reo di dire che avrebbe votato per Achille Lauro.
Tre anni dopo, dopo già 38 film, molti dei quali in coppia con Vianello, arriva la pellicola che lo consacrerà: Il federale, del 1961, diretto da Luciano Salce. Con la sua interpretazione di Primo Arcovazzi, un graduato delle Brigate nere che deve prelevare un filosofo antifascista in pieno 1944 da un paesino d’Abruzzo e condurlo a Roma, Tognazzi porta sullo schermo «l’immagine – scrive Valentina Pattavina nel recente La quarta T (Einaudi), una biografia dell’attore – di un fascista tutto sommato buono, un uomo semplice che crede nei propri ideali e non li rinnega nemmeno in punto di morte». Il film arriva nelle sale il 5 agosto 1961 ed è uno straordinario successo di pubblico. Scriverà Fausto Gianfranceschi: «È la prima volta che il cinema italiano cerca di guardare “dall’altra parte” di una certa barricata politica ormai affidata alla storia». Sullo stesso piano anche La marcia su Roma, film dell’anno successivo di Dino Risi in cui Tognazzi interpreta uno squadrista della prima ora insieme a Vittorio Gassman. E prende il via una carriera che lo porterà negli anni a seguire a lavorare con Germi, Ferreri, Pasolini, Bertolucci, Monicelli… Chi potrà mai dimenticare il conte Lello Mascetti della trilogia di Amici miei e la sua “supercazzola”? O il deputato neofascista Pino Tritoni di Vogliamo i colonnelli? O il sordomuto di Straziami ma di baci saziami? Dopo aver girato con Elio Petri La proprietà non è un furto, Tognazzi dirà alla stampa: «A volte uno diventa comunista così, per caso, come le esperienze dell’infanzia. Forse sotto casa di Petri c’era una sezione del Pci e così lui è diventato comunista. Se, sotto casa, avesse avuto una sala da biliardo, sarebbe campione di carambola…».
Nel 1964 Tognazzi girò con Carlo Lizzani La vita agra, dal romanzo omonimo dell’irregolare Luciano Bianciardi. L’autore del romanzo, invitato alla prima milanese, esce contento e così pure Ugo che ha avuto per primo l’idea di trasformare il romanzo in film e che si era preoccupato di convincere il produttore. E c’è una traccia dell’Ugo nazionale, nelle lettere di Luciano, che così arrivava a definirlo: «Autentico gatto da cortile, anima persa dietro alla fica, attore di formidabile istinto». Un vero e proprio arcitaliano del nostro Novecento.
*Da Il Secolo d’Italia del 27.10.2010